Se ci ripenso – se ripercorro all’indietro la mia storia d’amore con la scuola alla ricerca dei loro volti – ricordo facce, quello sì, ma poco altro. Mi sono scivolati accanto senza che li sfiorassi mai, un po’ come il loro popolo nei nostri libri di storia: da sempre tagliato, riassunto, compendiato, anche un po’ temuto. Quello che è certo, è che li ho sempre capiti poco, gli studenti cinesi. Cosa si nascondeva, esattamente, dietro il loro millenario riserbo?
Pensavo che non lo avrei saputo mai; anzi, forse non mi interessava affatto saperlo, e poi, stamattina, alla porta della mia vita ha bussato lui: Hui Fen.
(“Come devo chiamarti?” – “Hui Fen, professoressa”)
Fresco di stampa come tutti i suoi compagni di prima.
Dovevano presentarsi agli altri seguendo una scaletta data e, come ultimo punto del discorso, volevo che recitassero alla classe quello che poteva definirsi come “il motto della loro vita”.
Hui Fen non si è tirato indietro, quando gli altri tentennavano perché avevo detto loro che dovevano offrirsi volontari uno dopo l’altro; non ha nascosto il suo viso rotondo dietro al banco di un’antica ritrosia, e un sorriso nuovo si mangiava via, a morsi voraci, il suo zoppicante accento cinese mentre ci raccontava gioie, paure e passioni e, poi, come da copione, terminava il suo piccolo e dignitoso monologo.
“Ci riesco anche se sono straniero”. Ecco il motto che aveva scelto per presentarsi.
E vorrei proprio che poteste sentirlo, il modo inceppato e commosso con cui metteva insieme i pezzi di questa consapevolezza potente e calibrava ogni parola balbettandola e riordinandola nel caos della sua vita duplice, ricca e difficile.
Il mio cuore tinnico si spezzava in più punti per poi ricucirsi più pulsante che mai. Ti prego, Signore delle scuole di ogni ordine e grado, fa’ che capisca il latino e che io non debba mai dargli un’insufficienza! Ma era già il turno di Benedetta, che ama i cavalli e odia caricare la lavastoviglie, e non c’era più tempo, e le parole si accumulavano accanite una sull’altra tessendo invisibili fili dentro quella classe ancora nuda.
Dopo che tutti si sono raccontati e che gli altri hanno preso appunti sui compagni, di solito apro la lavagna della LIM – così c’è più spazio – attacco la cassa al computer, apro una playlist inqualificabile di canzoni romantico-introspettive e chiedo a ciascuno di alzarsi in silenzio e di scrivere due cose altrui che lo hanno colpito.
Di solito va così, e un po’ è andata così anche stamattina. Di solito, però, sono la prima ad alzarmi e a cominciare questo gioco di risonanze nel vuoto. Rompo il ghiaccio e conto che ci sia qualcuno, dopo di me, che ama fare lo stesso. Di solito succede.
Che cosa avrei scritto, se una zanzara carpigiana (e quindi per sua natura implacabile) non avesse scelto proprio quell’istante per ronzarmi intorno con le sue promesse di letali ed impronunciabili malattie? Di certo avrei ricopiato il motto di Hui Fen, sentendomi la solitaria paladina degli ultimi che lancia il suo grido d’amore in una stanza di cuori rivolti altrove.
Di certo lo avrei fatto, ma non è andata come di solito.
Sono stata preceduta. Gabriele – bello, biondo, ben vestito, atletico e sorridente – si è alzato prima di me e ha scritto alla LIM ci riesco anche se sono straniero.
Poi altri hanno aggiunto altro. Altri si sono alzati e riseduti. Ci sono stati altri motti, altre paure, altre passioni condivise. E io ero sempre lì a dare la caccia alla zanzara tigre. Ad un certo punto Giulia ha chiesto, pacatamente: possiamo scrivere anche due volte la stessa cosa?
Certo.
Giulia voleva copiare anche lei il motto di Hui Fen.
E dopo Gabriele e Giulia ci sono stati Lorenzo, Matilde e Gaia.
Al suono della campanella ci riesco anche se sono straniero campeggiava cinque volte sulla lavagna, e nessuna di queste vestiva la mia grafia.
E allora raccontiamo questa storia a chi ci chiede come sono gli adolescenti oggi. Raccontiamogli che non ne ho le prove ma secondo me dieci anni fa Gabriele, Giulia e Lorenzo avrebbero copiato altri motti, sulla LIM, e quello di Hui Fen sarebbe scivolato via accanto alle loro vite bionde e vincenti senza nemmeno sfiorarle.
Raccontiamo in giro che a volte i ragazzi sono migliori di noi, o anche solo più veloci ad alzarsi e a ignorare le zanzare.
Ma raccontiamoci anche, immaginandola sottovoce, la cosa più bella di tutta questa storia, e cioè il suo finale: Hui Fen che se ne torna a casa silenzioso in corriera, e poi a piedi dalla fermata del bus fino alla porta del ristorante dei suoi genitori, trottolando sotto il peso buono di quella lavagna traboccante solidarietà.

Nessun commento:
Posta un commento