venerdì 6 giugno 2025

Corazze

 – Io però – disse Elena, – devo dire che nella corazza ci sto bene. Non è che io lo abbia letto sui giornali femminili: ci sto bene proprio, come si sta bene a casa.

Nel racconto Protezione Primo Levi magistralmente immagina uno scenario distopico in cui gli esseri umani si rintanano - o si lasciano rintanare - dentro pesanti armature di metallo. A cena, una sera, Marta - che è la padrona di casa e ha invitato una coppia di amici - avanza il sospetto che si tratti in fondo di poco più che un bisogno indotto; Elena però, che se ne è appena fatta commissionare una su misura, non sa e non può raccogliere alcuna provocazione in tal senso anche perché, come afferma efficacemente poco dopo

(...) mi sento protetta come in una fortezza, e alla sera quando vado a letto me la tolgo malvolentieri.

– Protetta contro che cosa?

– Non so: contro tutto. Contro gli uomini, il vento, il sole e la pioggia. Contro lo smog e l’aria contaminata e le scorie radioattive. Contro il destino e contro tutte le cose che non si vedono e non si prevedono. Contro i cattivi pensieri e contro le malattie e contro l’avvenire e contro me stessa. Se non avessero fatto quella legge, credo che mi sarei comperata una corazza lo stesso.


... Che cos'è la letteratura se non il doppio gesto di impugnare la matita per sottolineare un passo e - contemporaneamente - di inclinare leggermente la medesima frase per fare in modo che quel frammento di specchio rotto rimandi un'immagine - magari distorta, imprecisa, annebbiata - di noi stessi in quel qui ed ora?

Elena e la sua corazza iper accessoriata mi sono tornate alla mente in questa salatissima ultima giornata di anno scolastico e, per un attimo, hanno fornito la risposta altrimenti inaccessibile ad un dilemma che mi attanagliava già da qualche giorno.

Perché sei così triste, il sei giugno di ogni giugno e per tutto il giugno che ne consegue, fino a quando soltanto l'acqua del mare Adriatico è in grado finalmente di lavare via ogni particella scolastica dal tuo corpo?

Le budella cominciano ad attorcigliarsi già quando il caotico maggio in rincorsa cede il posto alla festa della Repubblica: il sorriso si aggancia come maschera vuota ogni mattina ma, poco più indietro, fa capolino quel sapore vischioso che, puntuale, ogni sei di giugno, invade poi come una macchia di benzina l'asfalto del tuo palato. Nemmeno le frisk lo sanno domare.

Perché?

Perché sei triste, che cominciano i vostri immeritati ed imperturbabili "tre mesi di ferie"? - chiederebbero gli amici di sempre, dandoti di gomito con quel loro fare canzonatorio e fraterno.

Ma come - si stupirebbe trepidante mia madre - non realizzi che da domani per fortuna potrai nutrirti meglio, senza ingoiare panini di fretta e stordirti di caffè?

Perché ti disperi, ora che hai finalmente finito di correggere verifiche fino a tarda sera, e di angustiarti il lunedì per le ore di lezione da preparare quasi in apnea? Ora che non dovrai più litigare con genitori e voti, puntare la sveglia al buio, conquistare adolescenti riottosi? - direbbe il mio saggio marito, che di fare molte di queste cose praticamente non smette mai.

Perché piangi, mamma, proprio adesso che possiamo giocare a UNO tutti i pomeriggi insieme? - pronuncerebbe scandendo attento le sillabe mio figlio (e già il fatto che il bogigio compaia ora su questi schermi per la prima volta come un interlocutore senziente avrebbe di che asciugarmi ogni lacrima - tornei di UNO a parte).


Elena lo sa, il perché. E adesso anche io.

Ogni primo di settembre, entrando in quei locali che ancora faticano a rilasciare il caldo attonito dell'agosto emiliano, i bidelli, ritti sull'attenti, consegnano ad ogni insegnante una corazza nuova di zecca, pronta a combattere insieme a noi i successivi nove mesi di sortite scolastiche. All'inizio il segno bianco del costume si strofina fastidioso contro il metallo rigido, ma ben presto ciascuno si accoccola volentieri in quel guscio e, volenteroso e solerte, si dirige verso l'aula assegnata. 

La corazza è ogni anno della mia misura, ma veste leggermente larga, in modo tale da lasciare un po' di spazio tra il mio corpo e la cappa: ed è proprio in quello spazio - solo all'inizio lo percepisco come freddo e nuovo - che, giorno dopo giorno, cominciano a rimbalzare tutti i salve prof, tutti gli scusi, i posso, i lo prometto e i d'accordo, anche quelli pronunciati più controvoglia; tutti quegli sguardi, quotidianamente puntati sulla mia corazza, vi penetrano - non c'è corazza senza giunture - e cominciano ad ondeggiarvi dentro, come pendoli impazziti. La sensazione dura e metallica lascia presto il posto ad un confortante tepore, prodotto dal vibrare di infiniti sbadigli, mani che si levano, penne che cadono, appelli, sorrisi, appunti, ripassi, confessioni, richieste d'aiuto alla vigilia di una prova, fogli tesi, presi e distribuiti: tutto trova spazio in quell'intercapedine larga giusto l'ampiezza di una spanna, in cui la scuola scivola e si incunea per non uscirne più.

Non c'è bisogno di null'altro, dal primo di settembre al sei di giugno: nessun riscaldamento centralizzato, nessuna giacca particolarmente imbottita. Tinni e la sua corazza ripiena e vibrante di scuola percorrono ogni mattina la Nazionale per Carpi sentendosi a volte appesantite, quello sì, ma mai spoglie. Al ritorno, in mezzo al traffico dell'ora di punta, a volte il ronzio del materiale didattico-educativo che prorompe da dentro la corazza deve essere coperto da un po' di buona musica al massimo volume, ma il più delle volte l'intero ecosistema produce qualcosa che assomiglia più che altro al rumore bianco con cui si addormentano i bambini. 

Tinni è protetta dagli spifferi della vita e procede marciando al solo suono delle giovani voci che la cercano, la deridono, la implorano, la consultano, la tartassano e (non sempre) la ringraziano; quelle giovani voci vergini che, rimbalzando contro il suo ego e la sua corazza, sanno coprire il suono di un'altra voce, senza età, che altrimenti approfitterebbe del silenzio come una zanzara feroce.

Ed ecco che, di fendente in fendente, arriviamo al sei di giugno. Come appaiono improvvisamente evanescenti, tutti quegli insegnanti spogliati dalla corazza che camminano quasi esangui verso il cancello d'uscita, nella loro pelle diafana da tanti mesi non più esposta al sole. Il pallore dei loro visi si rispecchia nel bianco dei faldoni di verifiche disordinate che, come tante formiche operose, vanno archiviando diligenti negli appositi spazi. Le aule scolastiche sono ormai solo un'eco delle risate beffarde di qualche ora prima e gli insegnanti in fila si squagliano stremati dentro automobili e biciclette, smobilitando il loro campo.

E Tinni sente, per la prima volta dopo nove mesi, l'altra voce. 

L'altra voce appartiene a qualcuno che assai di rado è stato menzionato in questo spazio così sempre brulicante di vita e di respiro. Una voce senza volto, senza età, e senza riposo. Una voce che, semplicemente, ripete: morirai; moriranno.

Tinni semplicemente non ce la fa, a venire a patti con l'altra voce. Non può accettare che il percorso abbia un termine: né per lei, né per chi ama, accanto a lei. Non c'è letteratura, non c'è filosofia, non c'è neppure fede che possa avvicinarla al realizzare che quella - sì, proprio quella - è l'unica certezza di cui dispone.

C'è qualcosa di più simile alla morte - essenziale, ciclica, tangibile - di un gruppo classe che, decomponendosi in venti particelle singole, dal sette di giugno, semplicemente, non esisterà più? Non ne è forse un assaggio letale il fatto che, ogni anno, una nuova quintaELLE usurperà le sedie della precedente, allegra ed ignara di ciò che l'ha preceduta, senza che di volti e storie rimanga poco più che un fievole ricordo?

Insomma: giugno, a Tinni, ricorda la morte: come può non odiarlo con feroce tristezza?


Eppure. 

Eppure questo giugno è un giugno ferale come gli altri ma anche un po' no. 

Perché? Perché sono tornata qui

Perché ho riletto un migliaio di parole con occhi nuovi ed antichi e allora forse sì, tutte quelle parole scritte, digitate, sospirate, piante, sorrise - non altrui, ma mie - si sono cucite, anche a distanza di anni, una sull'altra, imbastendo trama ed ordito di un abito che tanto metallico non è, e neppure robusto. La stoffa si affloscia leggera, aderendo al mio corpo: non c'è nessuna intercapedine. Una vestaglia, insomma, più che una corazza; ma in questo giugno cupo e mortale posso provare a farmela bastare.


2 commenti: