MOLTEPLICI INIZI.


A proposito di:

interculturalità - scuola - letture - frivolezze - risparmio - poesia - creatività - viaggi - pande - giardinaggio ... e bizzarrie varie.

domenica 1 giugno 2025

Un nuovo genere letterario:

... le lettere di fine "ciclo" agli studenti.


Una parabola, nel Vangelo, racconta una storiella che suona più o meno così:
una volta un seminatore – non particolarmente solerte, a quanto pare – mentre se ne stava lì pacioso e tranquillo a lanciare semi in terra, fece cadere per sbaglio una parte del suo sacchettino in vari posti in cui il seme non sarebbe dovuto cadere: e il Vangelo spiega che “una parte del seme cadde lungo la strada, e gli uccellini se la mangiarono; un’altra sopra ad un suolo roccioso, dove spuntò subito, sì, ma non poté mettere radici profonde, e inaridì; e un’altra parte ancora tra le spine, che crebbero e la soffocarono”. Solo una scarsa metà, quindi, di ciò che lui all’inizio custodiva tra le mani, poté infine cadere nella buona terra - quella arata, accogliente, matura – e da lì, finalmente, riuscì a portare frutto, a crescere rigogliosa, e a restituire al povero seminatore distratto un buon sessanta per cento di prodotto in più.    
Gesù – che sta raccontando questa storia ad una folla di gente che lo ascolta e chissà se lo capisce per davvero – conclude poi con una frase, che nei secoli è diventata un po’ stantia, e che fa: “chi ha orecchie per intendere, intenda”.

Io, per esempio, mica lo avevo inteso. 
A me, di parabole, piacciono quella dei talenti – perché amo i premi, e vincerli, se possibile – oppure quella del figliol prodigo, che torna a chiedere scusa dopo aver combinato un bel po’ di cazzate e mi ha sempre fatto sentire un po’ più in pace con la parte di me che un certo tipo di premi l’ha visto poco.
Quella dei semi, no: non la capivo.
Perché questo seminatore rimbambito fa cadere tutto quel ben di dio nei posti più assurdi? Non se ne accorge? C’è un buco in fondo al sacchetto? – mi chiedevo distratta, e troppo intenta a contare successi o tragicommedie della mia imperterrita vita. 
Ebbene, cosa è successo poi? È successo che l’anno scolastico che sta terminando – e che a volte mi sembra sia stato molto peggiore dei precedenti, mentre altre volte, più semplicemente, no – mi ha insegnato ad intendere almeno un pezzo della parabola del seminatore.

Sono stata un seminatore incauto – infatti – o non mi sono accorta che il sacchetto di classi che avevo ricevuto in dotazione era un po’ più rosicchiato dai topi e dall’usura rispetto ai precedenti? Durante tutti questi mesi di lezione, io seminavo ma in realtà credevo soltanto di farlo, perché tanta parte di quei minuscoli agglomerati di sillabe e righe rosse finiva a languire in posti strampalati e inaccessibili, da cui – forse, chissà, magari – un giorno, dopo un’inattesa innaffiata, produrrà un improbabile germoglio (che io non vedrò mai).
Seminavo, arrancavo, perdevo pezzi e mi affannavo a cercare quel maledetto buco nel sacco, senza notare, però, una cosa pazzesca.


Che una manciata di semi – esattamente ventitré – , prima piccoli ed intimiditi, poi sempre più arditi sui loro steli fragili, venivano alla luce alle mie spalle, in un piccolo angolo di prato incustodito.
Da dove saltavano fuori, quei ventitré germogli curiosi e sorridenti lì dietro? Quando accidenti li avevo interrati?
Perché, se è vero che l’anno scolastico 2024/25 mi ha insegnato a decodificare la parabola evangelica, ne ha raccontato anche un finale diverso, come se le storie di semina potessero essere ancora più pazze di come le aveva immaginate Gesù.
Perché io, quei ventitré semi, non li avevo nemmeno piantati. 
Li avevo lasciati in magazzino per dedicarmi prima al sacchetto bucato – c’erano dentro semi più grandi? O forse più piccoli? – e mi ero riproposta di tornarci dopo, ad occuparmene. Tanto sono in gamba. Tanto sono solo semi. 
E, invece, con la magia imprevedibile e la storta caparbietà che solo dei piccoli semi di quindici anni sanno dimostrare, quei ventitré puntolini erano diventati un prato. 
Un prato morbido e compatto che ora, quasi subito dopo averlo accarezzato tutto insieme per la prima volta, devo lasciare in eredità al nuovo fattore, che forse ci costruirà sopra un’altalena o forse una panchina.
Quei ventitré semi – le cui lezioni ho sempre preparato per ultime, negli scampoli del tempo rimasto, prima di addormentarmi sui libri o puntando la sveglia alle 5.55, che non ho mai accompagnato fuori dalle mura di questo capanno degli attrezzi che è il liceo Fanti, che non coordinavo, che davo per scontati, e che sono cresciuti così zitti e compiti da non farmi nemmeno voltare – sono stati il vero raccolto di quest’anno insolito: il vero miracolo, la vera parabola. 
E se prima erano soltanto dei ciuffi di verde separati da qualche invalicabile zolla di terra – i semi maschi di qua, coi cellulari in mano, i semi femmina di là, a sistemarsi i capelli allo specchio della finestra – in questo ultimo mese di scuola e di coltura sono diventati proprio un bel mantello erboso uniforme. 
Lo erano mentre ascoltavano allegri e rapiti i racconti epici sul padre esotico di un loro compagno, quando costruivano appassionate ed improbabili catapulte; lo erano mentre facevano il tifo per Lugli o per Carrara nella sfida più spassosa e all’ultimo sangue di tutto il biennio; in kayak, sui banchi, dietro alle telecamere di un filmato e anche chini coi volti sulle ultime verifiche sudate, tutti a fare il tifo per tutti.

Siete proprio un bel prato, cara seconda C, ed è stato un onore per me vedervi nascere, e crescere, e formarvi e fiorire senza quasi muovere un muscolo, dimenticandovi all’angolo della via e pensando che, alla fine, in qualche modo mi avreste comunque accolta, al mio ingresso in aula, col vostro sorriso riservato e un po’ perplesso. 
Buona fioritura lungo i prati del triennio e della vita.




Nessun commento:

Posta un commento