Qual è il malessere morale che vede la sua causa ed il suo rimedio nello stesso preparato?
C’era una volta Ercole, l’invincibile Ercole delle dodici fatiche, impegnato a depennare dall’elenco l’ultima delle imprese: scendere negli Inferi, annientare Cerbero e riportare in terra l’amico Teseo.
Ma a casa non hanno sue notizie da tanto, troppo tempo.
Ne approfitta un tiranno vicino, un tal Lico, che arriva in città deciso a far fuori moglie e figli del nostro eroe. Tutti si preparano a soccombere, quando all’improvviso Ercole rientra e con due colpi ben assestati manda Lico all’altro mondo. Il coro festeggia Ercole come benefattore dell’umanità, eroe civilizzatore, gran figo della Grecia, ma attenzione che di solito, quando siamo a questo punto ed è solo la fine del primo atto, non è una buona notizia.
E difatti si presentano sulla scena due figure inquietanti: sono Lyssa, la dea della follia, e Iris, messaggera dall’Olimpo. Litigano: Iris porta un ordine di Era, ma Lyssa vorrebbe non esaudirlo. “Nessuno ti ha chiesto di essere saggia: sei qui per obbedire”.
E di nuovo siamo accanto al grande Ercole, che sta ultimando i preparativi per un sacrificio; ci sono la moglie, i figli, l’anziano padre, tutta la servitù. Il passaggio di Lyssa non è che un soffio, ma Ercole improvvisamente cambia sguardo. “Devo correre fuori, ho dimenticato un appuntamento”.
“Il dentista? Le gomme nuove? Il collegio docenti?”
“No, devo uccidere Euristeo, che mi ha imposto tutte quelle fatiche. Vado e torno”.
E corre per i corridoi della reggia, si mette giacca, cappello, stivali e ad ogni passo attraversa – nella sua mente – valli e montagne. In pochi secondi è già a destinazione, e i primi che incontra sono i figli del suo nemico. Li sgozza uno dopo l’altro. Poi è il turno di una donna: gli sembra la compagna di Euristeo. E alla fine, stremato, si accoccola a terra e docile si addormenta.
Tutti, intorno, hanno visto. Ercole, in preda a follia, ha ucciso i suoi bambini e la sua donna.
Al risveglio, l’ultima cosa che Ercole pronuncia prima di scoprirsi uomo distrutto, è di una tenerezza disarmante: “Ah, che bello, respiro ancora”.
Sarà il padre a mostrargli i cadaveri ben noti e a raccontargli ciò che lui, in effetti, non può ricordare.
A Ercole non resta che scegliere con quale sistema farla finita: può buttarsi da una rupe, può darsi la morte con la sua spada – come già Aiace prima di lui, vittima della stessa sorte; potrebbe anche accecarsi, imitando Edipo. Ma non fa in tempo a decidere. Stanno bussando alla porta: è Teseo.
“Apri tu, padre. Mi vergogno del suo sguardo.” Quando Teseo viene accolto, vede solo una figura china, tutta coperta da un mantello; ma la storia è presto narrata.
“Ehi, a te che siedi nel dolore, io dico di mostrare il volto allo sguardo di un amico”.
Ed è qui che la tragedia di Euripide, contro ad ogni aspettativa epica e tradizionale, si trasforma in una storia di uomini. Teseo non consola Ercole, non cerca di mitigarne la sofferenza, ma lo prende per mano e gli dice vieni con me, ti porto ad Atene. Ti do una casa, dividiamo i miei beni. Passiamo insieme la vecchiaia. Dai.
Ercole si scopre il capo.
Gli dèi non esistono. Gli dèi ci sono ma stronzi. Gli dèi se ne fregano.
I due ci provano, a capire, ma alla fine, semplicemente, partono, l’uno appoggiato al braccio dell’altro.
Ed Ercole ce lo immaginiamo così, mentre esce malconcio di scena, tira su col naso e pronuncia le ultime parole del dramma: “In tanti accumulano ricchezze, beni, forza: ma chi preferisce procurarsi tutto ciò invece che un buon amico, beh, forse dovrebbe vergognarsi”.
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