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lunedì 14 febbraio 2011

Una lettera di Luisa

Quando leggo le storie che lo Scorfano ci racconta sui suoi alunni, come quella, meravigliosa, di oggi, oltre a commuovermi da brava romanticona idealista, a incazzarmi, da brava non-precaria con il sogno dell'insegnamento, ad esaltarmi da brava filo-immigrazionista senza frontiere, mi sento sempre anche un po' una merdina, pensando che, almeno per ora, nella mia vita non ci sia nulla di così scintillantemente pedagogico, nulla che possa essere commentato con le parole "hai salvato una giovane vita".
E invece, in fondo in fondo, non è così; o almeno non sempre lo è stato. Il mio senso di onnipotenza, per un instante sopitosi, si è infatti subito rialzato in piedi facendomi riportare alla mente quanto mi accadde ormai due anni fa, quando mi trovai a gestire il temibile Recupero estivo del debito o come accidenti lo chiami la Gelmins, all'interno proprio di quella che era stata la mia scuola, il Liceo Classico di Modena.
Voglio dunque raccontarvi anche io una piccola storia "alla Scorfano": l'unica, per ora, che mi sia capitata, ma che, proprio per la sua unicità, dubito che potrà venir mai cancellata dalla mia memoria.
Quell'estate mi erano state assegnate due "mini-classi" di recuperandi, una quarta e una quinta ginnasio. Tralasciando le piccole-grandi emozioni della vita nel'udirsi chiamati Prof. (con la maiuscola, vi assicuro che, almeno io, l'ho sentita!), nel sentirsi porre grandi domande esistenziali e nel conseguente veder pendere quei dieci fanciullini dalle tue labbra, nel riconoscere la paura per un compito in classe che tu e solo tu hai preparato e hai corretto, va bhe avete capito mi sono esaltata, già dal primo giorno, nella IV, ho notato un viso in più rispetto all'elenco di nomi che mi era stato fornito. Era Luisa (quanto mi sto gasando ad usare la scenetta scorfaniana dei nomi inventati lo so solo io): alla mia cortese domanda sul motivo che l'avesse condotta ad unirsi a noi, lei rispose che la Madre l'aveva obbligata; lei era stata bocciata, ma i suoi volevano lo stesso che frequentasse i recuperi. La gioia e la passione per il latino e il greco traspiravano letteralmente dai suoi occhi, mentre diceva questo, ve lo potete ben immaginare. Bhe, le ho detto io, sei la benvenuta. E ho cominciato la mia lezioncina.
Più passava il tempo e più lo sguardo di Luisa si perdeva nei meandri del vuoto. Quando toccava a lei rispondere o tradurre una frasetta, la leggeva controvoglia e poi restava muta. Dal momento che, però, la sua presenza non era fonte di disturbo alcuno per lo svolgimento della mia attività, avevo deciso di essere paziente e, quando restava muta di fronte al latino, facevo finta di niente e passavo la parola al suo vicino. A metà lezione, puntualmente, mi chiedeva cortesemente di andare in bagno, e tornava 20 minuti dopo con un alone di fumo e di "adultità". Tutti i giorni, puntuale, arrivava, salutava, si tornava a sedere sul banco, apriva un quaderno e poi piombava nella più profonda delle sue riflessioni personali. Poi, la pausa sigaretta alias momento di trasgressione, e, ancora una volta, sedia, quaderno e vuoto.
Il penultimo giorno di recupero era prevista una piccola prova di verifica che voleva essere un'imitazione di quella che i ragazzi avrebbero dovuto sostenere per saldare il debito. Quando avvisai la truppa di ciò, dissi anche con la più grande gentilezza possibile, a Luisa, che, se voleva, poteva restare a casa, se non era interessata alla simulazione (avrebbe comportato anche un'ora in più rispetto alla normale tabella di marcia), ma lei, con un sorriso tirato ma fermo, mi aveva risposto che sarebbe ugualmente venuta. Bene, dissi, allora alla prossima.
E qui viene il bello.
Il giorno della prova (un capolavoro della pedagogia latina e della mise en page, modestamente: avevo pure messo le note a piè di pagina per spiegare delle cose. A metà versione mi sono accorta che nessuno le aveva viste.), la distribuisco a tutti, divido i banchi, e mi metto a compilare lo pseudo-registro. A metà del tempo, comincio a girare per i banchi per controllare lo stadio della traduzione e, arrivata al banco di Luisa, mi accorgo che lei fa di tutto perché non veda cosa sta scrivendo, perché non la aiuti. Nessun problema, penso io anche un po' infastidita. Cavoli tuoi.
Poi, la consegna: do un occhio veloce ai fogli ma, mentre nel frattempo la classettina sciama fuori, noto che ce n'è uno scritto molto più degli altri, tre pagine di foglio protocollo. Eh che sarà mai - mi chiedo - una rivisitazione in versi di Cesare? No, era una lettera di Luisa. Indirizzata a me.
Non riesco ora, con il tempo che stringe e la banalità che incalza, a ripetervi per filo e per segno il contenuto. Ma, innanzitutto, era ben scritta, con un italiano un po' alla Moccia, ma corretto. Sostanzialmente, si trattava di uno sfogo: tutti la facevano sentire una fallita, la Madre in primis, mentre lei avrebbe solo voluto fuggire via. La scuola non le piaceva, i compagni neppure, si sentiva bene solo fumando le sue sigarette nel bagno. Non ci capiva un cazzo (cit.) di latino, non lo riteneva una cosa degna della sua attenzione, lo odiava, ed era venuta ai recuperi solo per far vedere alla Madre che non era una merda come invece lei la accusava di essere. Ma, alla fine, si scusava con veemenza per essere stata un peso durante le mie lezioni, lo sapeva benissimo lei, che aveva creato problemi, si scusava per avermi fatto perdere tempo, mi ringraziava di averci provato, e poi di nuovo scusi, scusi Prof., scusi anche per questo sfogo ma non sapevo a chi raccontarlo.
Probabilmente, nelle carriere di chi, il Prof., lo fa da tanti anni, una cosa così sarà quasi di routine, ma, per me, fu un fulmine a ciel sereno. Non ci ho nemmeno dormito la notte: la settimana dopo avrei dovuto incontrarla, avrei dovuto fare la persona responsabile, chiamarla in disparte e dirle che la scuola ti dà delle opportunità e che non bisogna buttarle via, che il latino sembra non servire ma alla fine ...non serve, che lei aveva capacità che occorreva sfruttare e bla bla bla... insomma, mi sentivo in dovere di dirle qualcosa, ma non sapevo minimamente da dove partire.
Alla fine è stata Luisa a rendere tutto più facile, era molto meno in imbarazzo di me. Al termine dell'ultima lezione mi si è avvicinata, ha aspettato che tutti gli altri sfilassero davanti alla cattedra con i loro puliti e un po' meccanici "Grazie, Prof" e poi mi ha guardato con un sorriso un po' beffardo (mi rendo conto che quest'espressione l'ha usata anche lo Scorfano oggi per il suo ragazzo di colore, ma forse dev'essere proprio una caratteristica degli studenti bocciati, universale), ha alzato le spalle e mi ha dato l'imbeccata. Ci siamo sedute sulla cattedra e abbiamo parlato di tante cose, della sezione dell'anno prossimo, dei compagni che io avevo avuto e che erano stati bocciati, del lavoro, delle paure del futuro, dell'università, delle letture. E mi sono trovata a scoprire che aveva appena finito di leggere un libro che io stavo leggendo all'epoca: e allora giù con i commenti, bellissimo, vero? si, specie quella parte là, si, è vero, ma il film che ne hanno fatto mi ha fatto cagare, hai ragione, hanno pure tagliato quello e quell'altro. E poi, un saluto finale, un in bocca al lupo per il futuro e un arrivederci alla prossima.
Chissà che fine ha fatto, Luisa.
Io, in quella scuola, non ci sono più potuta entrare. La Gelmini ha tagliato ulteriormente i fondi e obbligato così le scuole a organizzare i recuperi solo con i Professori già interni.
Nel mio piccolo, ad ogni modo, spero che abbia fatto come Obafemi, o che, almeno, serbi, come me, un bel ricordo di quella chiacchierata.

1 commento:

  1. Non diventa mai una routine, credimi. Le verifiche lo diventano, lo diventano le lezioni e, ahimè, anche le bocciature. Ma certe parole degli studenti, almeno per me, non riescono a diventarlo.

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