Qualche giorno fa sono andata a comprare qualcosa in un negozio non lontano da casa, dove lavora un vecchio amico che fa parte di quel mondo polveroso e sregolato che sono le antiche amicizie dei sedici anni. O meglio, per essere precisi, fa parte della categoria di quelli che io avrei tanto ardentemente desiderato fossero più che amici dei sedici anni ma che invece non corrispondevano a tale desiderio (categoria che peraltro ha una sua consistenza numerica non da poco). Fatto sta che non lo vedevo da almeno due anni. O forse anche di più.
E' buffo. Rincontrare un vecchio amico, intendo.
E' buffo perché si pare entrambi dei palombari in attività ventimila leghe sotto i mari. Ci si muove con l'ovattata lentezza di quei filmati sul primo uomo nello spazio, e, esattamente come in quei filmati, il silenzio sembra un po' l'unica forma di comunicazione ammissibile. Ci si squadra come se si fosse entrambi ricoperti di centinaia di strati di salsedine e di detriti, come dei naufraghi che dopo anni si ritrovano in due sulla stessa isola deserta ma ancora non si è sicuri che chi abbiamo davanti non sia un pericoloso indigeno guerriero.
Ci si indaga con lo sguardo un po' corrucciato fino a che non si riconosce, dietro a tutti i detriti, in fondo proprio in fondo, che so, quel modo di camminare un po' dinoccolato che si credeva di non ricordare più, oppure quel particolare del sopracciglio, quel muovere le dita lunghe ed infilarle veloci dentro le tasche dei pantaloni stretti.
E il silenzio, appunto, il silenzio scrutatore sembrerebbe l'unica via, se non fosse che siamo pur sempre dentro ad un negozio e ci tocca fare il cliente e il commesso; e allora quello che è chiamato a fare il cliente interrompe il riconoscimento fiutato e ovattato con una roba del tipo ehi scusa voi qui li fate, i buoni regalo, che suona come il rombo di un motore truccato in mezzo ad un concerto di flauto.
E allora tutto ritorna su dei binari di consueta normalità, sì li facciamo, quanto ci metto dentro, sessanta euro sì grazie a chi lo devo intestare, senza accorgersi che ormai dentro a quei binari si è in trappola, zac!, e non c'è più spazio per il contatto leggero dei palombari, non c'è più spazio per fare e dirsi quello che sarebbe bello dirsi dopo tutto questo tempo sai sono stata un po' una cretina, no, ma il cretino ero io, figurati, non ci voglio nemmeno pensare a quante cazzate dicevo a quel tempo, sì in effetti eri scemo un bel po', ma pensa come si cambia, ed ora siamo qui, quanti anni sono passati? cavoli, più di dieci.
Quei maledetti binari arrugginiti lasciano giusto il tempo di pronunciare quello striminzito cosa fai, nella vita? che lascia tanti di quei buchi e tanti di quei vuoti che sarebbe quasi meglio non chiederlo neppure. E si è già al resto, allo scontrino, alla busta di plastica, grazie e arrivederci, e allora non resta che ripartire, uscire, dire ciao, stammi bene, eppure quell'amarognolo in bocca come quando si sbaglia a scegliere la caramella dal barattolo di qualcuno che te la sta offrendo non vuole andare via.
E si rientra a piedi verso l'automobile parcheggiata, si riguarda la busta di plastica con dentro i vari oggetti acquistati e, così per un riflesso distratto, si prende in mano lo scontrino.
Per accorgersi che il tuo vecchio amico dei sedici anni ti ha fatto, in un angolo di quel silenzio di astronauti, un piccolo sconto non richiesto.
E, in fondo, tra palombari in esplorazione, anche quello può bastare.
A volte, invece, i binari della consueta normalità ti portano nel posto consueto, ma che ti chiedi come possa mai essere lo stesso che ti ricordavi. È un po’ come tornare all'ENS dopo un mesetto di assenza, andare nella solita sala 3, mentre fuori c’è la solita pioggia, sedersi al solito tavolo e occupare anche il posto accanto, l'unico con la sedia comoda imbottita, aspettando che arrivi Tinni. Anche se lo sai già che Tinni non potrà arrivare. Boh, oggi mi è successo.
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