Tornavo al parcheggio della macchina a bordo di un
traballante autobus numero diciannove, ieri, a zig zag (quanto è bello dire zig zag, peraltro?!) per le vie di Bologna. Ero
seduta, con la mia consueta botta di culo
(cit.), verso il fondo del veicolo, guardavo fuori dal finestrino e all’improvviso,
tra via San Felice e via Riva Reno, ho partorito una riflessione profondissima (che vi risparmierò, tirate
pure il vostro sospiro di sollievo, ché non è questo l’argomento del post) sull’Amore.
Così, mentre i palazzi un po’ fascistoidi e rigorosamente porticati di Saffi mi
passavano davanti. Così, quasi senza sforzo. Un pensiero bellissimo, modestissimo
e articolatissimo su cosa significa saper amare.
Ed ero contenta, di averlo partorito, quel pensiero; ero
fiera di me e lo stavo infilando in un cassettino da qualche parte qui dentro per
poi scriverlo una volta arrivata a casa, quando mi sono detta che, in effetti,
a me queste perle vengono sempre e
soltanto quando sono in treno o in autobus. E forse anche in aereo, anche se ci
vado poco e non è facilmente verificabile. Insomma, quando sono seduta di
fronte ad un pezzo di vetro che lascia scorrere, dietro di sé, immagini in
movimento di varia umanità.
Chissà cos’è, in effetti, che fa di questi luoghi quotidiani
dei posti dell’anima; dei serbatoi di
sguardi all’ingiù dentro a quel gomitolo di roba che abbiamo nello stomaco. Chissà
cos’è – mi sono detta, ma proprio dal punto di vista pratico, fisico. Forse è
il fatto che tu, lì dentro, ti muovi ad una velocità diversa da quella a cui si
muovono le cose che vedi fuori; sei in un sistema con regole e parametri
differenti; e mi viene in mente tutto un discorso di fisica che mi ha fatto
qualcuno un po’ di tempo fa sulla storia che se sei su un aereo che viaggia
veloce intorno alla terra il tuo tempo è diverso da quello di chi sta giù, e
poi ancora un sacco di altre cose sulla relatività e sul punto di osservazione
che influenza la misurazione ma sono tutti pensieri troppo aggrovigliati che
non riesco a spezzettare, come quando non ti viene il nome di un attore, e
quindi no, non deve essere quello che fa dell’autobus un luogo dell’anima. Dev’essere qualcosa di più semplice.
E allora forse è il fatto che sei lì in silenzio, fermo, per
una volta tanto in una giornata in cui tutto si muove; o forse ancora è che non
guidi tu, che non sei tu il padrone del percorso, e ti tocca lasciarti portare
come mai sei capace di fare accidenti a te durante la vita reale; o ancora che
non sei solo, che accanto a te sbraitano piangono chiamano le fermate ridono al
cellulare e si spintonano i più svariati pezzi di mondo, e tu sei lì in mezzo a
loro, diversa eppure vicina.
O forse, ancora meglio, è per tutte queste cose insieme.
E mentre giungevo a questa – parziale – conclusione ho
deciso che quando sarei arrivata a casa oltre ad annotare il pensiero intelligentissimo sull’amore avrei
scritto per voi questo post. E già, come faccio sempre, cominciavo, impaziente
dattilografa, a sillabare le parole con cui lo avrei condito, dentro alla
macchina da scrivere della mia testa, e ascoltavo anche con un pezzo di
orecchio le voci intorno a me: discussioni su detersivi, su fidanzati stronzi,
su travestimenti di halloween, senza contare il fiume assordante di espressioni
rumene incomprensibili che uscivano dai tre ragazzotti dietro di me, che
probabilmente stavano parlando di polpettine al sugo o di automobili da
riparare, eppure la vecchina alla loro destra li guardava e scuoteva la testa
come se discutessero dello stupro della prossima vittima innocente.
Insomma, tutti parlavano o pensavano a qualcosa, e io pensavo al perché gli autobus sono luoghi
dell’anima.
Ed è stato in quel preciso istante, ecco che arrivo al punto
finalmente direte voi, in quel puntualissimo, fottutissimo istante, che ho
pensato, con una consapevolezza che non avevo mai avuto, ho fatto bene a
fare lettere. E non, come tante altre volte ho pensato, è stato bello fare lettere. Ché
quello lo avrei potuto dire anche se avessi fatto matematica, come stavo per
fare, o psicologia, come volevo fare alle elementari, o giurisprudenza, come
volevo fare alle medie. Bello, in
fondo, sarebbe stato tutto, almeno a tratti.
No, io ho pensato ho
fatto bene a fare lettere, io, per come sono. Lettere e non fisica, che
tutti quei discorsi sui due sistemi a velocità diverse non riescono proprio ad
uscirmi nitidi dal cervello, ma so dire di che colore è una domenica pomeriggio,
o almeno mi diverto a farlo. Lettere e non legge; Lettere e non altro.
Così, tutto qui.
Insomma, alla fine non credo che un euro e venti sia troppo,
come prezzo per una corsa di autobus, da via Rizzoli al Cimitero Certosa.
Splendido.
RispondiEliminaSplendido è il sorriso che mi hai fatto fare con il tuo commento, Disagiato :)
RispondiEliminaBeh, un euro e venti è davvero una cifra non esosa se poi ti permette di fare luce nei tuoi pensieri come ci racconti.
RispondiEliminaA quando il tuo post su cosa significa davvero amare una persona?
Marco
Hai fato bene a fare Lettere, però è anche vero che tra i matematici e i fisici ci sono musicisti e poeti di rara sensibilità. Anch'io sull'autobus sono un po' come te, nello specifico la 56 a Milano. Ciao.
RispondiEliminaops, fatto
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