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giovedì 7 febbraio 2013

della prof. Riganti e di tante altre cose

Mentre spiegava il participio predicativo e la sua voce ondulata sbatteva contro le palpebre intontite di molti di noi, per poi rimbalzare sui muri di aule che, del participio predicativo, avevano sentito parlare ormai chissà quante migliaia di volte, la mia professoressa di prima liceo - la prof. Riganti - aveva un modo tutto speciale di infilare la mano destra alla base della nuca, in mezzo ad un sottobosco di capelli color cenere, e di aprirne le dita come a massaggiarsi cute e collo, finendo poi per districare qualche nodo annoiato, ma mai con la convinzione sicura di un pettine, bensì sempre, piuttosto, con un fare sornione che non spaventava nemmeno l'ultimo capello arrivato.

Pensavo di averlo perduto, questo dettaglio insignificante della mano della prof. Riganti a spulciarsi i capelli lenta e dolente tra un perfetto attivo secondo e l'etica del guerriero omerico; pensavo di non possederlo più; anzi, non lo pensavo neppure. Non esisteva, punto.

E invece, qualche settimana fa, ritrovando - per uno di quei casi buffi della vita nonché del sistema scolastico italiano - la prof. Riganti seduta qualche banco avanti a me in una delle insignificanti ed interminabili lezioni di questo tieffea, ho fatto correre l'occhio - intontito certo più di allora - su capigliature nuche colli penne e fogli che giacevano compìti nelle file di fronte e un amo insinuante si è infilato di prepotenza dentro al sacchetto della mia memoria più fonda, per tirarne fuori, infine, la figurina di quella mano, di quelle dita, di quella timida districanza. E per dirmi hai visto? - lo fa ancora, esattamente come un tempo.

Quanti fotogrammi in movimento esistono dentro di noi pur senza un cartellino di riconoscimento; quanti tappi di biro mordicchiati, ciuffi ribelli, camminate storte, strizzate d'occhio sbilenco ci portiamo appresso e ne sentiamo solo un peso confuso, una stanchezza di fine giornata senza aver lavorato poi tanto.
E allora, ancora, quante impronte di dita sulla guancia, quanti pizzicotti, quanti sguardi pesanti a terra esistono, vivi e sopiti da qualche parte, in semplice attesa di un amo pretestuoso che li trascini, implacabile, alla riva del nostro io?

Io non voglio più portarmi addosso pacchetti senza titolo. Non voglio più districare nodi in fili appiccicati per sbaglio al maglione elettrizzato. E di certo non voglio, nello zaino, il peso strisciante e silenzioso di libri che mi hanno fatto piangere di rabbia e di cori di voci che mi hanno ferito.



D'ora in poi - e sarebbe bello riuscire davvero a renderlo realtà - non girerò più con le borse della spesa aperte alle mani di chiunque, sull'autobus da casa alla vita; niente più giacca sbottonata, nei corridoi ventosi della metropolitana del rientro, la sera; guanti spessi, sguardo diritto, scarpe imbottite.
E quando, nei lunghi interstizi di attesa dall'esistere, avrò voglia di riempirmi di parole, invece di ascoltare quelle dei vicini - di qualunque vicino - tirerò fuori dalla mia borsetta a tracolla verde militare un libro tutto mio, scelto da casa, con cui fare scudo, solidale, ai ritardi dei mezzi e alla monotonia del tragitto, fino a giungere, sana e intatta, allo zerbino di casa mia.

2 commenti:

  1. scusa il commento che non centra nulla con questo post sono stato al cinese di via ferrarese ma te sei sicura di esserti trovata bene? io non molto oltreutto non fanno ricevuta.. dove mi consiglieresti di andare visto che non credo ci tornero' piu.. sto cercando anche io parrucchieri ma hanno sempre voglia di chiaccherare e poco di lavorare..

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