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martedì 19 febbraio 2013

Samarcanda (via da).

(...) Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

E. Montale



Non ero in tangenziale, stasera, ma ugualmente guidavo, e per vie ormai così percorse da divenire parte lucida e trasparente dei miei occhiali stessi, per strade così battute da poter lasciare il posto, spontaneamente ormai, a telefonate, canzoni, calcoli e pure a rimestate traduzioni dal greco senza offendersi, senza impuntarsi, senza curvare di stizza: guidavo per strade note, linee continue e sporchi cumuli di neve ostinati.

Parlavo al cellulare con un allievo, con l'apposito ausilio dell'auricolare, tiravo su col naso, sbattevo le palpebre (anche se questo non lo ricordo, lo presumo soltanto), annuivo e gesticolavo pure un po' - l'allievo non poteva certo beneficiarne - quando all'improvviso, coperto controvoglia dalle spiegazioni concitate sull'imminente tesi di laurea e rimboccato artificialmente da un sibilo di radio tenuto acceso per sbaglio, un sussulto inconsueto ha mosso brusco un'auto rossa, là dietro, oltre lo specchietto retrovisore, e io ho assistito ad un terribile incidente muto.

Una dopo l'altra le macchine nel senso di marcia opposto hanno chinato la testa di fronte al problema - la fretta ha lasciato il posto allo sgomento - e nel tempo del mio saluto a domani stai tranquillo la fila all'altro capo della strada era già bella lì, ordinata, rassegnata, compunta, con lo sguardo incuriosito ma non troppo, chiamo a casa, valà, ché qui mi sa che si fa lunga.

Una manciata di auto dietro di me, un pugno di secondi dopo, ad una mediocre quantità di battiti di ciglia dal mio ora, tre auto si sfracellavano le une contro le altre sobbalzando al metallico sapore di morte.


Cerchiamo il sole, il caldo, il cuscino, le tariffe più convenienti, un nuovo orizzonte e paia di scarpe sempre diverse. E poi, proprio quando camminiamo per strade sempre uguali e telefoniamo a numeri noti, ogni volta monocordi, proprio quando manteniamo velocità da crociera e socchiudiamo gli occhi all'abbaglio del tramonto della pazienza, proprio quando appoggiamo il capo sonnolento al lurido poggiatesta del treno e le chiavi dell'allegria al chiodo della porta, a due forchettate di vita da noi cade una pietra, implacabile. E noi, chissà come, siamo scalzi. E salvi.

Dobbiamo davvero essere allegri, ogni volta che solchiamo la via che porta al noto, ancora una volta, anche se piove? Dobbiamo davvero star svegli, per guardare fuori dal finestrino in ogni centimetro del viaggio che ci è toccato in sorte, anche se il treno ferma in piena campagna per furto di materiale elettrico lungo i binari presso la stazione di altrove?


Sono ripartita al più presto, ché ero in ritardo per la mia ripetizione - l'alunna meno simpatica, gli ultimi ingranaggi di una giornata normale. La borsa, soltanto, sembrava pesare qualche grammo di più: tra i libri e gli scontrini, un pugno - leggero, inutile - di vita.

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