MOLTEPLICI INIZI.


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interculturalità - scuola - letture - frivolezze - risparmio - poesia - creatività - viaggi - pande - giardinaggio ... e bizzarrie varie.
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mercoledì 27 febbraio 2019

Edipi ridenti

Tutto comincia sempre dalla Panda. Ogni volta si parte dalla Panda e nella Panda e presto scriverò anche qualche riga sul suo essere finita a fare da correlativo oggettivo della mia anima, ma per adesso non andiamo fuori tema.
Sono sulla Panda, quindi, e quella parte di mattina che sempre più prepotente si riversa su Carpi al momento dell'ingresso delle scuole scorre fuori dai miei finestrini promettendo un'altra giornata di sole e batticuore.
Dentro, a bussare ritmicamente ai vetri cercando un pertugio di aria nuova, trombe, batterie e violini sempre uguali ricamano pensieri ogni giorno nuovi sulla stoffa di una testa bionda, confusa e spettinata.
E' un po' più tardi del solito e come sempre accade in questi casi mi accorgo di quanto i Carpigiani siano incapaci di affrontare le rotonde. Lenti, titubanti, indecisi: non sanno approfittare del riparo benefico del compagno di corsia, per scivolargli accanto sulla destra, anche senza vedere, solo fidandosi dell'Altro. Non sanno forzare il gioco, alzando dignitosi il tettuccio e anticipando di qualche millimetro il flusso impietoso della vita. Non sanno usare le rotatorie, insomma, e quelle grandi neanche un po'. Lunghe file si accumulano pertanto scattose ed ingombranti e tra i ricami pensierosi di quella stoffa bionda e spettinata si fa strada qualche strappo di nervosismo mattutino. 
Prenotare un computer; pinzare fotocopie; modificare una supplenza: ci sarà spazio per tutto questo, entro le 7.55, se questi pigri cittadini guarderanno ancora a lungo prima a destra e poi a sinistra, invece di trattenere il respiro e, semplicemente, buttarsi?

Ma è proprio in questi strappi e in questi sbuffi così poco tinnici che lo sguardo di quella testa bionda e spettinata, inquieto e stufo di sbirciare lentezze davanti a sé, cerca rifugio nello specchietto retrovisore, per un'ultima controllata alle occhiaie, fedeli e silenti compagne di ogni fatica. 
Le occhiaie ci sono: anche oggi, anche dopo otto ore di sonno, anche sotto al trucco. Sempre lì. Presto scriverò anche qualche riga sulla loro muta e paziente compagnia, al mio fianco, ormai trentennale, ma per adesso non andiamo fuori tema.
Le occhiaie ci sono; il mascara pure; il correttore sta facendo il suo sporco lavoro distraendo brufoli sotto pelle. Si può tornare a controllare a che punto sono i Carpigiani con i loro estenuanti dubbi attraversatori, ma prima guardiamo se per caso conosco qualcuno alla guida dell'auto giusto dietro di me. Ché tra le tante carezze che la Bassa ha profuso nell'adottarmi, c'è anche quella di regalare, ogni tanto, qualche grappolo di volti noti: al Lidl, in coda al semaforo, nello spogliatoio della piscina, facendomi sentire - come già raccontavo - un poco a casa.

Anche l'auto dietro di me è una panda: viola, per l'esattezza, ma a guidarla non sono colleghi o studenti conosciuti. Una madre sulla cinquantina - di cui ricordo solo capelli neri la cui tinta stava scivolando via, ma dolcemente - conduce il veicolo con aria allegra. Ride: strizza gli occhi, abbandona la testa all'indietro e poi la scuote come a far scendere ancora un poco quella tinta verso le punte. Un programma esilarante alla radio? Una telefonata in viva voce?
Basta che lo sguardo si muova un poco a destra per svelarlo: al suo fianco c'è il figlio, cartella in spalla, la cui voce complice mi arriva muta ma che, in tutta evidenza, ha appena pronunciato qualcosa di comico ed irrefrenabile. Ne è contagiato lui stesso, ed entrambi, reagendo appena allo scatto successivo della fila titubante, si beano di questa risata a contrappunto, che scivola dall'uno all'altro e si rimpolpa di energia ad ogni passaggio. 
Null'altro sembra essere necessario al loro duetto: non qualche minuto in più per pinzare fotocopie, non musiche sempre uguali da cd ormai esausti, non sole e non pioggia, nella loro giornata. Madre e figlio ridono e la loro panda viola è piena così.

Risultati immagini per panda viola

E allora non posso fare a meno di immaginarmelo, quel figlio, tra pochi scatti di coda, una volta superata la rotonda del giustospirito e imboccato il viale delle scuole: scendere dall'auto, voltare seccamente la faccia verso il marciapiede, masticare un saluto veloce, rialzare il cappuccio sul suo sguardo assonnato e raggiungere il branco, che lo aspetta per l'ultima sigaretta o il punteggio del fantacalcio. Un figlio come tanti, davanti a scuola, a cercare di dimenticare di essere figlio, annaspando con noncuranza nel mare dell'ignoto, aggrappato solo al suo cappuccio. Figli traballanti, figli soli, figli orgogliosi: solo figli senza madri vede Tinni tutti i giorni - mentre le madri, senza figli, aspettano timorose il loro turno ai ricevimenti mattutini - e se non fosse stato per quell'attimo, per quella panda viola, per quella esasperante lentezza carpigiana nell'attraversare le rotonde, avrei dimenticato che anche i figli, dentro le auto, ridono complici con le loro madri, ritagliandosi un angolo di allegria prima di indossare la maschera degli adolescenti in cappuccio e fantacalcio.

Anche i figli che lottano per non essere figli hanno diritto, poco prima di salire sul ring, ad una risata liberatoria che annulli i ruoli e nutra entrambi così come sono: una donna e un uomo, dentro allo stesso spazio stretto, all'alba di una mattina di sole e batticuore.

Ed è proprio in quell'istante che Tinni, che non è madre, chissà se mai lo sarà e da un po' di tempo è rimasta indietro anche sul programma dell'essere figlia, si sente scivolare addosso un'ombra di invidia calda, che pure non riesce ad intiepidire l'abitacolo di quella panda-anima. Invidia calda per un istante buono e assoluto di affetto ridente alla periferia della giornata, al margine delle lavagne e dei voti, un passo prima di varcare la soglia. Un attimo puro di risata senza scopo, per poi fingere di non averlo mai vissuto, mentre si corre verso il branco degli impegni e si cerca, come ogni mattina, di stare in piedi da soli.




Canali radio di barzellette, ne abbiamo?



sabato 23 febbraio 2019

L'incrocio che sognava di essere una rotatoria

Succede, di solito, il sabato.

Ma soltanto in certi sabati più assonnati del solito, a dire il vero.

Il sabato Tinni esce all'una da scuola e, se per l'appunto si tratta di uno di quei sabati assonnati al seguito di una lunga serata che ha sconfinato scavallando il valico di giornata, è possibile che Tinni, verso le tredici e trenta, si trovi a passare da lì.

La prima volta l'ha trattata a tutti gli effetti come tale: ha rallentato, ha scalato la marcia, ha sbirciato a sinistra, e solo quando era già lì lì per fermarsi e dare la precedenza, si è accorta che quella, no, non era affatto una rotatoria, ma un semplice incrocio con spartitraffico centrale.

La seconda e la terza volta ha inciampato nello stesso errore, complice la nebbiolina soffusa lasciata nel suo cervello dalla serata appena trascorsa, ma se n'è accorta in tempo prima che gli impazienti veicoli delle retrovie dovessero riportarla all'ordine con un feroce colpo di clacson.

Alla quarta volta, però, Tinni ha dovuto ammettere l'evidenza: quell'incrocio - ogni volta, ogni sabato, ogni tredici e trenta - continuava ad ingannare le apparenze e a mostrarsi, fin dal primo sguardo lontano, come quello che non era; quell'incrocio continuava imperterrito a fare finta di di essere una rotatoria.

La posizione di certi cartelli - sì, forse - , il rapporto tondeggiante tra i due rami di strade incrociate - anche quello, può essere - , la particolare luce del sole delle tredici e trenta, impietosamente pulviscolare - chi può negarlo? Forse proprio la concomitanza di tutti questi dettagli fa sì che agli occhi di Tinni - mentre sfreccia stanca verso la stazione e verso un abbraccio - quel reticolo di strati di cemento si presenti sotto le mentite spoglie di una rotonda.

Ma se avete imparato a leggere bene tra le righe di questo spazio, anche se più rade, anche se più silenti, avrete anche già compreso che non è nessuno di questi dettagli il vero responsabile del fraintendimento e non sono nemmeno tutti i dettagli messi insieme.

Quell'incrocio è fatto così: lui sogna proprio di essere una rotatoria.

Non da sempre, intendiamoci.
Appena costruito si beava del suo statuto rettangolare e si diceva che quelle due braccia perpendicolari avrebbero abbracciato con successo automobili bisognose e cullato maternamente motorini preoccupati. Da giovane pensava che avrebbe cambiato il mondo, o perlomeno che lo avrebbe lasciato un po' migliore di così. Quanti incidenti evitati? Quante carrozzine in attraversamento tutelate da quelle fette bianche in parallelo, rigidamente dipinte sopra il suo ventre? Quante sane attese del proprio turno, in fila, uno dietro all'altro, mentre il suo asfalto scaldava e rincuorava pneumatici affranti? La regolarità razionale del suo funzionamento (ne era certo) apportava al traffico di quel quartiere di Modena - un agglomerato ancora informe di capannoni e caseggiati di edilizia popolare - scatti necessari e salutari di ordine e rigore.

Poi però.
Poi, però, arrivarono in città le prime rotonde. Caotiche, grasse, strabordanti, irregolari. Nessuno credeva che avrebbero fatto scuola: solo un pugno di cocciuti ingegneri - e un solerte assistente tecnico ai cantieri, molto caro a chi scrive - si ostinavano a costruirne qua e là dopo averle scoperte visitando i paesi del Nord.
Piano piano, cerchio dopo cerchio, curva su curva, la notizia delle nuove rotatorie arrivò fino al nostro incrocio di buona volontà.
Come riusciranno a domare il traffico senza dei rigidi turni di precedenza? Si chiedeva turbato tra una riga e l'altra. Come è possibile che nessuna strada ceda perentoriamente il passo all'altra, ma un po' tutte a ciascuna? Davvero da questa anarchia controllata di flussi che guardano solo da una parte può derivare qualcosa di buono per l'uomo? Davvero un cerchio può essere più ordinato di un quadrato?

Risultati immagini per forme geometriche cerchio quadrato
Queste domande metterebbero in crisi perfino una risoltissima autostrada: immaginiamoci quindi che effetto produssero sulla compunta e volenterosa indole del nostro incrocio modenese.
Impegnarsi ancor più rigidamente per battere la concorrenza? Inoltrare apposita domanda al Comune per essere riconvertito? Se la sentiva (alla sua età, poi!) di perdere ogni abitudine lungamente coltivata - le carezze alle ruote in attesa, le pacche di incoraggiamento ad ogni attraversamento titubante, la velocità delle auto sulla via maestra - per vedersi snaturato nei panni di qualcosa che ancora faticava a capire?
L'incrocio di pochi anni prima sarebbe rabbrividito al solo pensiero: la lunga strada verso la razionalità e verso l'illuminismo stradale appariva così spianata di fronte a lui!
Il nostro protagonista finì poco a poco per distrarsi colle sue fantasticherie e perdere mordente. Il suo asfalto non teneva più bene la presa sulle frenate delle ruote di ultima generazione. Il cartello rosso dello stop, curvato da un incidente notturno, non era stato più raddrizzato. Gli ingegneri del Comune - i figli ormai dei primi pionieri delle rotatorie - erano corsi ai ripari installando un innocuo spartitraffico, che si limitava ad osservare spaesato dal basso l'incrocio perso ormai nei suoi divoranti dubbi esistenziali.
Le rotatorie, nel frattempo, erano diventate le regine incontrastate degli snodi più essenziali della città. Solo le periferie - come era rimasta (al di là di ogni promessa elettorale) la zona di capannoni e caseggiati popolari a pochi passi dal retro della stazione ferroviaria - potevano permettersi di tenere in vita i sonnolenti incroci di un tempo. La maggior parte di essi, che non aveva mai brillato per velleità idealistiche, si arrabattava come aveva sempre fatto e tirava un sospiro di sollievo di fronte alla diminuzione dei mezzi in circolazione, deviati ormai sulle grandi arterie. Nessuno di loro aveva mai nutrito una così solida passione per il proprio lavoro, e così ora ciascuno di essi scivolava placido verso pensione e dismissione con la stessa apparente apatia dei giorni migliori.

Il nostro incrocio no. Il nostro incrocio continuava ad arrovellarsi e a sognare di vivere una vita non sua. A immaginare di non essere mai nato incrocio. A creare scenari di improbabili colpi di scena.
- Figlio di una rotatoria? Davvero? Oh, ecco che così tutto avrebbe un senso! -
Il nostro incrocio sognava di essere una rotatoria - pur sapendo ormai di essere condannato a morire incrocio - e lo faceva così forte che, alle volte (alle tredici e trenta, in certi sabati particolarmente sonnolenti), un po' una rotatoria lo sembrava anche, e specie agli occhi così premurosi di Tinni, che riassapora questa storia e ci sente dentro un po' il gusto della sua.

E allora cosa dire a questo incrocio deluso dalle luminose promesse di geometria ed immerso oramai nell'inestricabile rete dei suoi pensieri aggrovigliati? Che è comunque meglio morire incrocio? Che ciò che si è nati non si può tradire? Che le persiane della pazza incoscienza devono essere ben assicurate dall'interno in modo che, proprio ora che la vecchiaia fa capolino, la stanza resti al caldo e al buono?
O gli diremo invece che anche a fine corsa si può stravolgere tutto, ingoiare ciò con cui mai ci si sarebbe nutriti, chiudere gli occhi e affidarsi a meccanismi che, fino a poco tempo fa, ci avrebbero gettato nel più disperato terrore?

Io non gli dirò nessuna delle due cose, quando passerò di lì il prossimo sabato assonnato e ancora una volta, sovrappensiero, mi sbaglierò e frenerò credendolo una rotatoria: anzi gli dirò che, in fondo, a me piace così.
Così pieno di dubbi, così tormentato dal desiderio di essere qualcosa che al contempo gli fa male, così irrisolto: così lui. Così incrocio e anche così rotatoria.
E gli dirò anche - sussurrandolo piano a lui e a me che riparto dopo quell'attimo di illusione - che non c'è riuscita più grande che ammettere di essere riusciti soltanto a metà.







mercoledì 18 aprile 2018

Monotemi

Quante volte si può mandare indietro un CD per riascoltarne un brano - uno e quello soltanto, badate bene - prima che l'autoradio in questione improvvisi un sit-in di protesta?
Vi è mai capitato di percorrere un intero tragitto automobilistico - una mezz'oretta, all'incirca, diciamo approssimativamente la distanza tra Modena e Carpi - chiedendo al vostro apparecchio di riprodurre sempre e solo la stessa traccia, e magari prima ancora dell'attimo di silenzio finale (non sia mai che si debba cliccare il pulsante indietro per più di una volta: e ciò accadrebbe se si scollinasse nel brano immediatamente successivo)?

A me succedono puntualmente tutte queste cose (tranne il sit-in di protesta dell'autoradio, che però mi aspetto di qui a breve) e pensavo che fosse normale, quando ti piace molto una canzone; un trepidante viaggio dai colli modenesi in direzione di un esame di inglese, l'estate scorsa, mi ha invece provato che le cose non stanno così per tutti. E' qualcosa di assolutamente insopportabile!  - dichiarava infatti il mio compagno di av/sventure anglofone e non solo, tra un present continuous e il ripasso del lessico dei mestieri, anche e soprattutto quando la canzone è di qualità! Ed io provavo a boicottare il suo grosso dito sui pulsanti del lettore musicale, per farlo tornare indietro almeno una volta, ma il mio amico, su questo, rimaneva irremovibile. Le canzoni si ascoltano una volta e basta. Se no le si rovina.


Oggi, rientrando nel tardo pomeriggio da una sfilacciata riunione per materia, ho ascoltato per mezz'ora soltanto una e una sola traccia musicale, di cui mi ero innamorata proprio qualche ora prima, nel viaggio di andata. E' stata lei, la sola e unica traccia musicale che ho chiesto al mio lettore di riprodurre per i trenta minuti del tragitto, che mi ha tirato fuori questo post, come srotolandolo da un nastro dentro di me, e facendomici avvoltolare a tal punto che mi sono anche dimenticata di controllare se l'asino fosse per caso tornato nel recinto della fattoria.

Però il post ve lo racconto per bene domani.
Per oggi, il numero di parole da me prodotto ha superato il limite quantitativo giornaliero.
Vi auguro una buona notte, ammesso che ci sia qualcuno al di là di questo schermo, e magari con l'autoradio accesa.

lunedì 16 aprile 2018

I(n)spirazione

Respirazione diaframmatica, la chiamano.
Inspirare: gonfiare l'addome, riempirlo di aria nuova che fatica a scendere fino lì, si inceppa tra le pieghe di un cuore sobbalzante e si appiccica sulle pareti di una pancia già gonfia d'altro (ahimè, i fagioli di ieri...); e poi espirare: appiattire gli stessi muscoli, cacciare via forzatamente ogni particella di vapore già vecchio ed inutile, partendo dal fondo - mi raccomando - e poi su fino alla gola, ed emettere un sibilo stanco a riprova che quel movimento accade davvero, che qualcosa di brutto è stato espulso e siamo pronti per ricominciare dall'inizio.
Dunque ancora: inspirare, gonfiare, introdurre; e poi nuovamente espirare, soffiare, appiattire.
Nel giro di poche settimane me lo hanno raccomandato due specialisti, interpellati in luoghi e contesti diversi per disfunzioni corporee che non potevano apparire più lontane le une dalle altre.

E così mi sono messa d'impegno.
In macchina, soprattutto, lungo un tragitto nuovo che ormai inatteso più non è, tra un ponte, una rotonda (mica ci sanno girare, i Carpigiani, sulle rotatorie, è incredibile: ma questa è un'altra storia), una fabbrica puzzolente e lui: il recinto della fattoria. Eh sì, perché tra un respiro diaframmatico e l'altro, ogni mattina, poco dopo aver passato il parcheggio di Martin Grigliate (se mi sposo, giuro che li chiamo al pranzo di nozze), sulla sinistra trovo ad attendermi un cortile, chiuso solo da un mite steccato, all'interno del quale, a pochi metri dalla strada trafficata, altrettanto mitemente convivono diversi animali domestici. Galline, tacchini, capre, pecore, conigli, oche; una casetta di legno, al centro; covoni di fieno, qua e là; un fiocco rosa, appeso giusto davanti alla porticina di ingresso, che cela al passante ulteriori dettagli sulla specie animale neo-nata.

Respiro diaframmaticamente e faccio pure gli esercizi di dizione, articolando a bocca spiegata le vocali mentre - senza far vibrare le corde, mi raccomando! - butto fuori l'aria e rendo concavo il mio povero ventre, tutti i giorni, finendo di solito qualche metro prima di cominciare a sentire il puzzo di una fabbrica sulla quale mi riprometto sempre di chiedere lumi a qualche collega del luogo (che razza di odore è? I primi tempi in cui ci passavo davanti, senza rendermene conto, attribuivo quell'afrore ai miei piedi, benché accuratamente ricoperti di calze e calzature; ci sono voluti almeno due mesi di rimproveri alla mia pedicure per realizzare che la puzza veniva da fuori - tutti i giorni, alla stessa altezza del percorso - e che probabilmente corrispondeva alle emissioni di quel grande edificio grigio alla mia destra). Respiro insomma con dedizione, e nel frattempo mi interrogo sul senso di questi malanni sopraggiunti tutti insieme, mentre attendo con dolore l'avvistamento del primo capello bianco, a cui si sommano le preoccupazioni quotidiane, le caselle di voti da riempire, la pizza d'asporto troppo gommosa nel nuovo quartiere, le malattie altrui, i prezzi delle scarpe da ginnastica, le amiche del liceo sorridenti e realizzate che fanno capolino dalle foto di instagram, i messaggi in coda per ricevere risposta, la ripetizione di oggi pomeriggio.

Lo faccio ormai da qualche tempo, e ultimamente sia all'andata che al ritorno. E' stato proprio al ritorno, circa una settimana fa, dopo la fabbrica-puzza-di-piedi, prima di Martin Grigliate, all'altezza del metanista scorbutico ma efficiente, che meccanicamente, tra un'inspirazione ed un'espirazione, ho girato la testa verso destra e ho incontrato con gli occhi un nuovo abitante del recinto della fattoria.


Un asino.
Già simpatico di suo, con quel fare sornione e solo apparentemente disinteressato, traboccante in realtà - ne sono sempre stata certa - di pensieri acutissimi sul vivere umano. Ma in questo caso doppiamente degno della mia attenzione.
Perché il nostro amico asino, in quel momento, fermo immobile in mezzo al cortile, portava sulla schiena, in perfetto equilibrio, una gallina e un tacchino, appollaiati lì come se niente fosse.

Ho evitato a stento un tamponamento. Com'era possibile che, dall'alto di tutta quella intelligenza mal sopita, saggio per secoli di osservazione attenta, accettasse un simile compromesso con due creature avide ed egoiste, che nulla di certo rendevano in cambio di quella irrituale invasione?
Eppure lui - e forse proprio in questo si nasconde l'ennesima conferma della sua natura superiore - non ne sembrava afflitto affatto.

Forse, a lui, la respirazione diaframmatica serve per cullare i suoi ospiti - ho pensato.
E mentre un sorriso stentato saliva dal mio diaframma al mio volto, storto ma fiero di essere riuscito, anche questa volta, anche a dispetto della fame e dell'afonia, ad appiccicare un post-it positivo sui pensieri dei dintorni, in coda a quel sorriso, appesa ad esso come ad un amo di pesca miracolosa, è arrivata un'idea didattica per un'attività di classe - la Mia classe, quella che in questo anno nuovo sto amando di più, anche se è una gara dura - che immediatamente mi è sembrata fichissima e che ho subito provveduto, diaframmaticamente gongolando, a scomporre, arricchire, dettagliare, e mentalmente annotare. Sentendomi, finalmente e improvvisamente, libera da ogni acciacco.

Merito della respirazione, del serafico asino, o dei due prepotenti intrusi?

Stamattina ho cercato di sghembo l'asino per ringraziarlo dell'ispirazione.

Non c'era più.

Qualcuno di voi potrebbe ipotizzare che fosse dentro alla casupola di legno, ancora avvolto nel suo placido sonno.
Io preferisco pensare, invece, che l'ispirazione sia stata condivisa, e che tra un respiro diaframmatico e l'altro egli abbia concepito un piano di fuga geniale e definitivo, e che ora vaghi per le praterie della bassa modenese assaporando erba e libertà.

sabato 11 marzo 2017

Fieno, balle di

Percorrevo una tangenziale semi deserta, qualche giorno fa, in un orario del giorno in cui avrebbe dovuto esserci buio, e invece una timida luce soffusa accarezzava l'orizzonte orientale del cielo. Un orario del giorno in cui avrei dovuto essere in casa, magari non proprio sotto le coperte, ma ancora intenta al trucco e al vestito, ad allacciarmi le scarpe, a finire senza sbavarmi l'ultima goccia di caffellatte o a cacciare l'ennesima cimice da sopra gli asciugamani, insultandola, e regalandole un ultimo, eccitante viaggio giù dallo scarico del water. E invece no, in quell'orario speciale tra notte e giorno, invece di infilare calzini ed torturare insetti puzzolenti, guidavo in tangenziale godendomi un accenno d'alba e il vuoto di entrambe le corsie, quando all'improvviso, scesa dalla cunetta all'altezza dell'ipercoop, ho trovato gran parte delle carreggiate occupate da due mastodontici camion di balle di fieno.

Ed è così che il mio personalissimo elogio ha preso lentamente forma dentro - e ora anche fuori - di me.
Perché mi sono messa a pensare alle balle di fieno.
Mentre tentavo - ma non volevo per davvero - di sorpassare quel serpentone disarticolato, miriadi di piccole pagliuzze di fieno invadevano impertinenti il mio orizzonte visivo e quello degli altri avventurieri delle sei di mattina: impertinenti e invasive, leggiadre e ballerine. Come se non fosse necessario essere un cingolato metallico per far sentire il proprio peso; come se non servisse pesare per invadere un campo; come se grazia e violenza, finalmente a braccetto, salutassero insieme a me, e alle loro madri le balle per intero, questa nuova primavera che anche oggi, anche qualche giorno fa, anche nel 2017 si ostina, invadente e gentile, a rassicurare i nostri calendari e i nostri cuori.



E allora benvenuto elogio delle balle di fieno, che accolgono le ginocchia sbucciate dei primi giorni di vacanza scolastica, in una gara a chi si arrampica prima; e i primi baci ad aspettare l'alba, lungo via degli Ossi, dopo una serata di lavoro e di risate; e le prime gocce di sudore della stagione calda.
Le balle di fieno, moderne eppure antiche: create con macchine rumorose e tecnologiche, ma fatte solo di paglia pungente.
A cosa servono, esattamente?
A far sorridere chi abita vicino ad un campo, e a fargli pensare che finalmente l'estate è vicina?
O a mantenere grandi quantità di foraggio per mucche al coperto e al compatto?

A nutrire bovini da macello, o a riscaldare la nostra anima, raggelata da un lungo inverno?

A voi la scelta: poesia o utilità, ma anche entrambe, ché come a volte accade, anche gli opposti vanno a braccetto, di contro ad ogni pregiudizio.

Nel frattempo, però, se una rondine non fa primavera, un camion di balle di fieno in tangenziale la fa eccome, e quindi, buona stagione più bella dell'anno a tutti voi.


martedì 27 dicembre 2016

Un gioco per le feste

Mi sentivo più viva, dunque, attraversando solerte il ponte politico su cui Marcello mi aveva sapientemente edotta; e pochi chilometri dopo, complice anche una speciale omelia della Vigilia, ringraziavo silenziosa questo Angelo Della Piscina, la scintilla di risveglio che aveva sparso - ignaro? - sulla mia strada verso casa e, infine, le mie orecchie che ancora si dimostravano in grado di cogliere irrilevanti ancore di salvezza.


Non potremmo essere - forse - tutti un po' Angeli gli uni per gli altri?
Quanta fatica comporterebbe sussurrare, tra una pizza e un mascarpone, al vicino di tavolo Questo per te il segno: troverai... (cit.) e riempire quello spazio puntinato con qualche impercettibile segreto di grazia?
Forse che non abbiamo - noi tutti - nascosti da qualche parte una manciata di ponti e un cassettino pieno almeno per metà di polvere di consapevolezza?

Voglio cominciare io. Anche se, a dire il vero, non è stato facile prendere il via.
Ci sono voluti almeno due pisolini, un paio di cene abbondanti, qualche sogno, e una spintarella di forza di volontà, ma adesso ho qui per voi il mio elenco di segreti modenesi, per un percorso più vivo nei meandri delle strade e della vita, a uso e consumo di chiunque si trovasse a passare di qua, metaforicamente o meno.



Cominciamo da Spilamberto, che è anche il comune a cui appartiene San Vito, da cui questo gioco è partito.
Tutti i lunedì e i giovedì sera - e il gioco viene meglio di notte, quindi nella stagione invernale - a chi percorrerà via Vignolese in entrambi i sensi di marcia, pochi metri prima della prima rotonda del paese, basterà lanciare uno sguardo verso l'alto (e verso sinistra, per chi come me guida verso il centro abitato) per notare che, all'ultimo piano dello stabile più grande, dietro a grandi e pulite pareti di vetro, illuminate a giorno di luce gialla, un gruppetto di donne danzano mute, entusiaste, sgargianti, al ritmo di una batteria percossa con fervore da una di loro e - forse - di altri strumenti presenti sotto forma di traccia audio.
Ridono sempre, sono spesso semi nude, saltellano e scintillano nella nera notte di chi, come me, ha spesso poca voglia di recarsi dove deve andare. Strappando un sorriso anche al più tetro dei conducenti.




(to be continued... nella speranza che compaia qualche esercizio simile nei commenti sottostanti o negli spazi pubblici e privati di chi ne avesse voglia!)



lunedì 26 dicembre 2016

Un ponte politico

Ho visto gente andare, perdersi e tornare
e perdersi ancora.
E tendere la mano, a mani vuote.
E con le stesse scarpe, camminare
per diverse strade.
O con diverse scarpe
su una strada sola..

F. De Gregori



"A San Vito la differenza la fa il ponte. - chiosa Marcello in risposta al volto perplesso di un astante - Quelli che abitano prima del ponte (venendo da Modena: e anche questo è un dettaglio importante) sono democristiani, quelli che stanno dopo il ponte, invece, comunisti".

"Io? Io abito dopo il ponte".

Ed è tutto più chiaro, allora, tra un sorso di birra e un morso sottile di pizza al sapore di cloro; e i contorni di San Vito - paesello insignificante, attraversato quasi ogni giorno senza far caso né al ponte (il torrente che attraversa è un greto, più che un corso d'acqua) né al colore politico dei passanti - cominciano a meglio definirsi davanti ai miei e agli occhi di chi è seduto da questo lato del tavolo, mentre le particelle di grasso smaltite con una furiosa partita di pallanuoto vengono mitemente sostituite da nuovi carboidrati al gusto di mozzarella.

"Il bar dei comunisti - continua Marcello con quel modo lento di parlare che è lo stesso con cui compita lo stile delle vasche ogni lunedì e giovedì sera - è quello gestito dalle due lesbiche, mentre nell'altro, sul lato sinistro della strada principale, ci vanno i democristiani, e a me non piace perché è troppo piccolo, ci si sta scomodi".
"I vecchietti del bar comunista, poi, si divertono a provarci con le due lesbiche, e loro ridono, perché hanno imparato a non offendersi".



Da casa mia a casa dei miei esistono almeno un paio di strade (ne avevo già parlato qui: che fantasia, eh?!), e io di recente avevo programmato inconsciamente il mio pilota automatico perché ne percorresse una all'andata e l'altra al ritorno (temevo forse che qualche semaforo si sarebbe sentito trascurato?); così facendo, però, saltavo sistematicamente il passaggio a cavallo di quel ponte, il ponte di cui Marcello, solo qualche sera fa, mi ha insegnato il fatale ruolo politico-sociale.


E così ho osato, cambiando i programmi e sparigliando i meccanismi prevedibili del binomio mano-volante: ho deciso di andare alla scoperta del ponte di San Vito.
Di lanciare qualche occhiata furtiva dentro al bar delle lesbiche, per vedere se riuscivo ad incontrare uno sguardo di sorniona provocazione.
Di scrutare al volo i volti dei passanti, alla ricerca di impercettibili sfumature e schieramenti.
Di osservare gli spazi angusti del bar piccolo, e magari di beccare Marcello stesso che ci passa davanti sdegnoso.


Marcello, a dire il vero, non l'ho ancora incontrato, ma mentre la Panda sobbalza - con tutti quei rumoretti e quegli acciacchi che oramai si porta dietro, dall'alto dei suoi cinque anni di onorato servizio - e sbuffa facendo capolino dall'alto del ponticello, a Tinni sembra di sentire quei due metri scarsi di strada su e giù e di sentirli più vivi.
Lei stessa, in realtà, si sente più viva, mentre aguzza vista, orecchie e cuore alla ricerca di segnali eterni eppure nuovi; mentre si allaccia metaforicamente scarpe diverse sulla stessa strada, ogni volta.
Mentre sorride e, per un attimo, non pensa a nulla, se non a futili, insignificanti, volatili e banalissimi ponti.


giovedì 28 agosto 2014

Specchi parabolici stradali

Ho pensato che alle volte la felicità è un po' come quegli specchi tondi che vengono messi agli incroci pericolosi per mostrare a chi ci è sotto se dall'altro lato arriva un veicolo.

Questi specchi o cartelli riflettenti tondi (ho pensato), quando ci passi davanti a piedi in bicicletta o anche in macchina, beh, finisce sempre che ti ci vedi dentro solo all'ultimo momento, solo quando ti sei già detto che strano, non mi riflette mica. E' proprio allora, e per gli estremi instanti di passaggio, che voltando quasi la testa all'indietro ti scorgi ansimante (sempre un po' deforme, certo non tanto bellina come ti credevi) e capisci che, sì, anche questa volta sei stata felice.

E più vai lento - a piedi in bicicletta o anche (molto più difficile) in macchina - più in tempo puoi fare a riconoscerti.




(il termine tecnico dell'oggetto in questione l'ho scoperto solo adesso tramite ricerca google e l'ho messo in epigrafe nel titolo).


*AGGIORNAMENTO. Ho spulciato una frase di Cardarelli che starebbe bene come sottotitolo di questo post. Non sono riuscita a risalire al componimento di cui fa parte. Forse non fa parte di nessun componimento.
E':

Felicità, ti ho riconosciuta dal passo con cui ti allontanavi.

domenica 29 settembre 2013

Articolazione funzionante

Mica l'ho capito da sola, veramente, che la melma della malinconia senza fondo era ancora lontana, laggiù, gorgogliante, nel buio. Che avevo invece qualche gancio d'appiglio e qualche bel metro di corda davanti a me, a metà della scalata. Figurarsi: io credevo che il viaggio di ritorno - ieri, dalla stazione dei treni più triste che c'è - mi avrebbe atteso a braccia aperte e a fazzoletti spiegati, e che comunque anche quelli non sarebbero bastati e avrei dovuto asciugarmi le ultime lacrime col gomito del maglione, io. 
Pensavo tutta convinta che, terminate le gocciolanti scale mobili a risalire dal binario diciannove, le gambe, da sole, non mi avrebbero più tenuta diritta e il primo piede di tristezza passante avrebbe potuto calpestarmi senza fare nemmeno troppo plof, senza quasi scivolare. 
Ero tutta presa da questi pensieri foschi e ostinati e sono arrivata alla macchina e più passava il tempo più le mie convinzioni si facevano articolate e vive e me ne stavo così concentrata in simili autoproduzioni depressive che al terzo semaforo dei viali ho scordato che dovevo cominciare a preincolonnarmi sulla destra in vista dell'incrocio successivo. 

Scuotendomi un istante dal torpore della mestizia ho sollevato il capo in un tentativo di cipiglio e ho buttato uno sguardo sul lato, nella corsia che volevo velocemente riguadagnare: arrivava a passo modesto una vecchia golf bianca. Raggranellato e raccolto tutto il suddetto cipiglio in un gesto, ho abbassato di getto la leva della freccia e ho spinto l'auto leggermente a destra, provando a forzare il flusso del traffico.

Un secondo; un colpo di freno; una sterzata sportiva: avevo vinto, ero passata. 
Nuovi metri di fettucce di tristezza potevano nuovamente avvilupparmi; mi tuffavo appena possibile nella tazzina del malumore. Tutto era nero, prevedibile: brutto.

Non so che dirvi: sarà stata una questione di istanti; un baleno di intelligenza pratica; un riflesso di incondizionato attaccamento alla vita: avevo ancora le due ruote di sinistra sulla riga divisoria tratteggiata quando, all'improvviso, è accaduto il fatto
La mia mano destra si è alzata d'imperio e con le cinque dita ben dilatate ha ringraziato, eretta allo specchietto retrovisore, il mite conducente della vecchia golf bianca che aveva rallentato per farmi passare: in alto, sicura, magnanima. E poi si è riposata sul cambio.


Io di certo non l'ho mossa. Mi stavo giustappunto chiedendo come avrei fatto, il mattino successivo, a trovare le forze per muovere i primi passi in una stanza vuota (e senza latte nel frigorifero): sicuramente non era mia intenzione esprimere ogni qualsivoglia sentimento di gratitudine. Eppure lei si è alzata. Da sola. A ringraziare il mite conducente di golf e a spiegare a me, senza tanti giri di parole, che almeno un paio di motivi per essere felice resistevano allo scempio della domenica sera: avevo un'articolazione ossea ben funzionante, ed un fatalistico e tenace senso della giustizia stradale sopravviveva al mio più cocente malumore. 

Un paio di chilometri dopo, per un motivo piccolo e telefonico, una lacrimuccia la versavo per davvero. Ma era di gioia. E l'articolazione della mano destra, attenta, attiva e funzionante, ha subito provveduto ad asciugarla.

martedì 19 febbraio 2013

Samarcanda (via da).

(...) Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

E. Montale



Non ero in tangenziale, stasera, ma ugualmente guidavo, e per vie ormai così percorse da divenire parte lucida e trasparente dei miei occhiali stessi, per strade così battute da poter lasciare il posto, spontaneamente ormai, a telefonate, canzoni, calcoli e pure a rimestate traduzioni dal greco senza offendersi, senza impuntarsi, senza curvare di stizza: guidavo per strade note, linee continue e sporchi cumuli di neve ostinati.

Parlavo al cellulare con un allievo, con l'apposito ausilio dell'auricolare, tiravo su col naso, sbattevo le palpebre (anche se questo non lo ricordo, lo presumo soltanto), annuivo e gesticolavo pure un po' - l'allievo non poteva certo beneficiarne - quando all'improvviso, coperto controvoglia dalle spiegazioni concitate sull'imminente tesi di laurea e rimboccato artificialmente da un sibilo di radio tenuto acceso per sbaglio, un sussulto inconsueto ha mosso brusco un'auto rossa, là dietro, oltre lo specchietto retrovisore, e io ho assistito ad un terribile incidente muto.

Una dopo l'altra le macchine nel senso di marcia opposto hanno chinato la testa di fronte al problema - la fretta ha lasciato il posto allo sgomento - e nel tempo del mio saluto a domani stai tranquillo la fila all'altro capo della strada era già bella lì, ordinata, rassegnata, compunta, con lo sguardo incuriosito ma non troppo, chiamo a casa, valà, ché qui mi sa che si fa lunga.

Una manciata di auto dietro di me, un pugno di secondi dopo, ad una mediocre quantità di battiti di ciglia dal mio ora, tre auto si sfracellavano le une contro le altre sobbalzando al metallico sapore di morte.


Cerchiamo il sole, il caldo, il cuscino, le tariffe più convenienti, un nuovo orizzonte e paia di scarpe sempre diverse. E poi, proprio quando camminiamo per strade sempre uguali e telefoniamo a numeri noti, ogni volta monocordi, proprio quando manteniamo velocità da crociera e socchiudiamo gli occhi all'abbaglio del tramonto della pazienza, proprio quando appoggiamo il capo sonnolento al lurido poggiatesta del treno e le chiavi dell'allegria al chiodo della porta, a due forchettate di vita da noi cade una pietra, implacabile. E noi, chissà come, siamo scalzi. E salvi.

Dobbiamo davvero essere allegri, ogni volta che solchiamo la via che porta al noto, ancora una volta, anche se piove? Dobbiamo davvero star svegli, per guardare fuori dal finestrino in ogni centimetro del viaggio che ci è toccato in sorte, anche se il treno ferma in piena campagna per furto di materiale elettrico lungo i binari presso la stazione di altrove?


Sono ripartita al più presto, ché ero in ritardo per la mia ripetizione - l'alunna meno simpatica, gli ultimi ingranaggi di una giornata normale. La borsa, soltanto, sembrava pesare qualche grammo di più: tra i libri e gli scontrini, un pugno - leggero, inutile - di vita.

lunedì 18 febbraio 2013

Tangenziale

Se ultimamente scrivo poco la colpa - sappiatelo - è essenzialmente delle tangenziali. Ultimamente passo un sacco di tempo a percorrere tangenziali.

La tangenziale mi è sempre stata cordialmente antipatica - risappiatelo. Non amavo le tangenziali, no no; anzi, non sono mai riuscita nemmeno a non odiarle. Con tutta quella saccenza ostentata di verde, quel volgare succedersi di pannelli esaustivi eppure ci manca sempre la stramaledetta indicazione che serve a te, quelle due corsie strette e nemiche, i sibili d'odio nei passaggi dall'una all'altra, il sudore cattivo dei sorpassi in curva, e poi, soprattutto, quell'ansiogena impossibilità di sbagliare.

Pensavo di non poter sbagliare, le prime volte che percorrevo tangenziali con i palmi improvvisamente madidi di nervoso; pensavo con rabbia frustrata che non sarei potuta tornare indietro, che l'abbraccio confortante dell'inversione a U mi sarebbe stato precluso, che non avrei potuto nemmeno fermarmi a pensare, con la protezione fragile e ballerina delle quattro frecce. Ed era così, infatti.

Non si può sbagliare, quando guidi sulle tangenziali e il peso delle giornate quasi alla fine di chi percorre le stesse strade a pochi centimetri dal tuo paraurti sembra strisciare fin dentro alla tua, di automobile, per sommarsi ai corsi del TFA e al rischio bocciatura della tua alunna prediletta. Non puoi sbagliare, no, in tangenziale, e se sbagli lo stesso e manchi l'uscita giusta l'unica cosa da fare sarà andare avanti, fingendo noncuranza in mezzo alla fila impaziente ed assetata di ordine; avanti e ancora avanti, al fastidioso successivo cartello verde, che nel suo impettito rigore ti sorriderà beffardo in un sussurrato te l'avevo detto e ti indicherà con finto sussiego l'uscita di emergenza.



Eppure - e di questo eppure riesco quasi a sentirne la fragranza amara, se tiro a fondo su col naso - se non si può sbagliare, in tangenziale, e tu hai sbagliato lo stesso, la volta prossima forse non sbaglierai, e il numero dell'uscita giusta ti si incollerà sulle mani - pellicola di colla vinilica alla fine di un lungo pomeriggio di attività scout - per non staccarsene più.

E se anche non si può sbagliare, sulle tangenziali, e tu sbagli una volta, e poi sbagli ancora la volta successiva perché uno stronzo ti ha sorpassato da destra impedendoti lo scatto felino dell'ultimo minuto - ma forse non è stato nemmeno uno stronzo, era semplicemente un uomo a cui altri avevano pestato i piedi (magari già bagnati) durante tutta quella giornata - beh, se sbagli due volte e ti viene da piangere invocando la retromarcia perduta, la terza, di volta, non sbaglierai più.

Non sbaglierai più e anzi, imparerai, giro dopo giro, ad incolonnarti sulla destra al momento giusto, al giusto intervallo prima del cartello, alla giusta distanza dall'uscita e al giusto spazio dall'auto che ti precede; imparerai a dosare velocità e frecce, a battezzare i prepotenti e a calibrare le tue potenze. Senza poter tornare indietro, imparerai.

Ad ogni giro, ad ogni ciclo, ad ogni mese e ad ogni anno della tua vita guadagnerai in conoscenza dei cartelli e in abilità di guida. Senza mai fermarti, senza poter mai nemmeno fare una minuscola inversione a U. Avanti, sempre avanti. Non diventerà forse bellissimo perfezionare quest'arte e accumulare granelli senza cancellarne mai? 
Poi, alle volte, passati i primi giri nel terrore puro, e poi i secondi nell'estasi della riuscita, ti sembrerà, ad un certo punto, che la strada sia sempre uguale, i cantieri non procedano mai, i pannelli annuncino sempre le stesse cose e le rampe di accesso possiedano sempre la medesima pendenza. E, in effetti, sarà grosso modo così.

E sarà a quel punto che dovrai imparare ad accorgerti non tanto più di dove sono le uscite o di come sono disposte le indicazioni; dovrai imparare ad accorgerti, allora, quando tutto ti sembrerà - e lo sarà - monotono, che le auto, le compagne stanche e solidali in quella volontà di autoconservazione che ci unisce tutti, le auto, quelle, saranno sempre diverse; e con alcune passerai lunghi tratti - magari già dall'uscita uno avanti fino alla nove, che è la tua, ormai lo hai imparato - accoppiato in corsia, alla distanza giusta per chiacchierare ma senza risultare invasivi; con alcune riuscirai pure a fare amicizia, ché usciranno dal lavoro alla stessa tua ora e imparerai a riconoscerne l'ingresso rombante - entra alla tre, se non sbaglio - poco più avanti a te, ogni pomeriggio; con alcune litigherai, altre le lascerai passare strisciando - cattive nei loro abbaglianti di prepotenza - nella speranza che non lascino dietro di sé nient'altro che fumo di scappamento; di altre ancora ti farà sorridere l'inesperienza impacciata: di alcune faciliterai l'ingresso titubante, altre invece le abbandonerai, frettoloso, al loro destino, con la quasi certezza che prima o poi impareranno a cavarsela da sole.

E poi ci sarà la tua, di auto, con la quale, curva e cartello dopo curva e cartello, vivrai sbagli e riprese senza smettere mai di volerle bene, squadra vincente o perdente che siate, e ad ogni giro, ad ogni ciclo, ad ogni mese e ad ogni anno della vostra vita sarete sempre un po' uguali e un po' migliori, e soprattutto sarete insieme.

mercoledì 6 febbraio 2013

Al ristorante lady

Quel tratto di via Bazzanese è noto, per lo più, a causa della presenza del ristorante lady, il quale, a sua volta, vanta tale fama non certo in virtù di succulenti menù o di incantatorie promozioni, bensì a causa del più prosaico fatto di possedere, esattamente sotto al cartello che ne annuncia la presenza, uno dei più temibili autovelox della zona. L'autovelox del ristorante lady - si dice infatti in giro (per lo più accompagnandolo ad insulti e/o resoconti di multe ingiuste - c'è in effetti un limite dei 70 che nemmeno mia madre rispetterebbe spontaneamente - lei che di solito non ingrana mai oltre la quarta marcia, perché uh, ma come scappa via questa macchina!), e quel rettilineo di strada statale ha così la sua - tenebrosa - fama.

Ieri viaggiavo appunto lungo il tratto di via Bazzanese, quello del ristorante lady, e c'era un tale traffico da impedirmi pure di preoccuparmi dell'autovelox: i settanta li avrei potuti raggiungere soltanto con lo stratagemma op op gadget auto (quello - per intenderci - in cui le ruote della macchina dell'ispettore si alzavano sopra a tutte le altre sorpassando qualunque coda), ma, non possedendone la chiave, mi limitavo ad ascoltare note di musica impilate una sull'altra mentre la mia mano destra dialogava pigra e svogliata con le marce seconda e terza. 

Ci voleva, insomma, il traffico opaco delle nove di mattina per costringermi ad accogliere, nel fastidio covato di un risveglio faticoso, le immagini sensibili del di fuori dal finestrino; per prendermi la testa e farmela girare - e quanto ho visto stava proprio dalla parte opposta del ristorante lady - contro un vetro mal pulito, aldilà del quale, comunque, si distingueva piuttosto nettamente una stradina di campagna laterale con una vettura del 118 parcheggiata alla bell'e meglio intorno al fosso.

Le autoambulanze, per di più, le si vede in vorticoso e lancinante movimento; quando se ne trova una, ferma, lampeggiante ma silenziosa, davanti ad una casa o ad un locale il sabato sera, funesti pensieri di disgrazia si mescolano immediatamente ad una sinistra ed amara curiosità. Niente di tutto questo, però, ieri mattina, in quella stradina laterale posta esattamente di fronte al temibile autovelox del ristorante lady. L'ambulanza del 118 se ne stava beatamente sopita a cavallo di un fosso di scolo, con un lato leggermente più inclinato dell'altro - proprio come quelle auto parcheggiate in fila sui lungomari delle località di vacanza estiva - o anche solo alla periferia di grandi metropoli costiere: stravaccate, incuranti, sollazzate: chissenefrega se c'è un divieto di sosta, noi siamo al mare. Così se ne stava, ieri mattina, il veicolo ospedaliero, tirando un insperato sospiro di pace da sirene ed inchiodate; poco lontano da lui, due operatori del 118, in divisa impeccabile.



Uno dei due armeggiava impacciato con un cellulare ultima generazione, e gridava parole nervose all'altro capo di un impalpabile filo: si erano smarriti, presumibilmente, o non trovavano il civico, oppure qualcosa non funzionava nel loro autoveicolo, chissà. Ma non è stato il frenetico, dei due, a svegliare la mia attenzione sopita dai troppi sbuffare. L'altro, a qualche passo di distanza, aveva entrambe le mani infilate nelle tasche e, dopo aver delegato ogni segnalata preoccupazione al solerte compagno, girato con il volto dalla parte del sole - un sole tanto caldo quanto ormai insperato, dopo settimane di nebbia imperitura - chiudeva gli occhi ai raggi potenti del mattino e si prendeva a mani nude il suo spazio di pace in un lavoro di guerra.

E non mi importa - capite il mio metaforico punto di vista, ve ne prego - che quello fosse un medico di chiara fama, un chirurgo d'emergenza, un semplice portantino o un solerte infermiere di pronto soccorso; non mi importa nemmeno se ci fosse o meno, dall'altra parte della strada, del quartiere, della città o dell'intera provincia, qualcuno ad attenderlo, qualcuno malato, bisognoso, sanguinante o semplicemente solo. Le nostre giornate sono piene di persone che ci chiamano, ci vogliono, ci prenotano e segnano il nostro nome su agende e su rubriche. E' il nostro lavoro; è la nostra vita. Ma quando, dopo giorni e giorni in cui hai visto solo tre metri oltre il tuo naso, giorni di umido, di calci nel sedere - che fossero per rimproverare fallimenti o per festeggiare successi, sempre calci sono stati - , dopo corse su corse nella nebbia e nel fango, quando, dopo tutto questo grigio, sorge il sole su una via Bazzanese stremata dai flash di un impietoso autovelox, ed è un sole cristallino, beh, allora, cinque minuti per infilarsi le mani nelle tasche piene di matite e scontrini e per voltarsi a chiudere gli occhi al caldo sporadico di febbraio, chiunque dovrebbe strapparli alla vita e tenerseli tutti per sé.

giovedì 20 dicembre 2012

La sostenibile leggerezza del camion

Caro Babbo Natale, caro Duemilaetredici, caro Mondo (Fine del), cara Befana, cari Maya, caro-vita e soprattutto cara Me dei prossimi istanti,
questa volta, per le tradizionali ricorrenze che si avvicinano, mi piacerebbe ricevere in regalo la sostenibile leggerezza dei camionisti.
Hai mai fatto caso, caro Babbo Natale, al modo dialetticamente pachidermico con cui un camion svolta a sinistra provenendo da una strada ad alto scorrimento? Vi siete mai incantati quell'attimo di troppo - fino al clacson antipoetico del frettoloso di dietro - alla timidezza impacciata con cui il tir butta l'imbarazzante naso rosso oltre l'impeccabile riga bianca e con sistematica pazienza attende il passaggio di irriverenti automobili, una dopo l'altra, anche quando sembrano non finire mai?
Ma a me piace, soprattutto, cogliere l'attimo - ché si tratta sempre di un attimo, anche se nella bonarietà è sempre difficile ricostruire il decisionismo - in cui, tratte le debite somme, l'autoarticolato sbuffa l'ultima boccata alla pipa dell'attesa e indossa il frac migliore dell'armadio: è il mio turno, ora passo io.
Caro Babbo Natale, è proprio questo di cui ti parlo, che vorrei trovare sotto il mio albero: la bontà implacabile del camion che ha deciso - pacatamente, con fermezza - che è arrivato il momento di farsi strada fino alla sua personalissima méta. E le altre auto, quando quell'attimo viene e la ruota grassa e dignitosa comincia a recitare la parte che ripassa da mesi, non fanno che inchinarsi, zittirsi, e poi, ad attraversamento ultimato, applaudire.

Ti hanno mai strappato un sorriso, caro Duemilaetredici, i nomi bislacchi, romantici e paradossalmente intimistici che lampeggiano di sottecchi dai parabrezza dei camionisti?
Perché - lo sapete, forse, voi? - i camionisti (così come i montanari, del resto) si salutano sempre, l'un l'altro?
Li raggiungono mai, quando magari smontano da quelle torri brillanti ed autarchiche, tutti i grazie che somministriamo loro - a mezza voce, nel silenzio caotico delle pubblicità radiofoniche - perché ci hanno sfanalato, fatto passare, attraversare, sorpassare, e precedere?



Cara Befana, facciamo così: fammi diventare un briciolo camionistica; mettimi nel sacchetto del carbone e delle caramelle una manciata di note baritonali dei loro clacson sornioni, un soprannome ridicolo, un paio di targhe e un simbolino rotondo con scritta in mezzo la velocità massima. Vorrei soltanto essere un po' semplice e un po' grassa, come loro.
Insegnami a svoltare con passo pesante quando arriva il mio turno. Insegnami a riconoscere il mio turno. E io, te lo prometto, cara Befana, farò attraversare tutte le signore sulle strisce e anche non su di esse. E se qualcuna di loro avrà un bel portamento, beh, allora mi lascerò scappare pure una suonatina di clacson di apprezzamento.

venerdì 24 agosto 2012

E poi, ancora, dove vanno

(Sì, ho una malattia. Sto prendendo pasticche dopo i pasti e faccio una puntura alla settimana: mi hanno detto che presto passa. Voi, intanto, portate pazienza e aiutatemi - se vi va - a cercarli, occhei?)

(...), dove vanno, mi chiedo tra lo stordito ed il perplesso, dove li mettono, i vecchi semafori bislunghi sostituiti dalle paciose rotatorie emiliane? I semafori reazionari e sdentati che hanno tenuto insieme il paese per decenni - ma che dico decenni, saranno almeno mezzi secoli - , tra brontolii e segnacci di frenata, ritti ed orgogliosi sotto qualunque tempo, qualunque amministrazione, qualunque cielo? Come glielo spiegano, a quelli che non hanno mai nemmeno capito bene la storia del suffragio universale e sono rimasti che il corriere costava cento lire, chi esattamente va là - di notte, risoluto ma paziente - a raccontare per filo e per segno ai vibranti semafori che il loro lavoro è stato egregio e però da domani ci sarebbe una cosa un po' nuova che il sindaco vuole mettere e praticamente voi verreste riconvertiti e riposizionati sulla base della vigente normativa quattro barra quattordici... ecco, insomma, e poi? Dove li mettono, che stanno rastrellando via tutti gli incroci dalle città come foglie sul selciato?
Li impilano forse uno sull'altro in una rimessa ai margini del mondo?

E, invece, i cartelli VENDESI - meravigliose finestre verso un ignoto sorridente di fatica luminosa - i cartelli vendesi che si appendono alle case, quando poi qualcuno quelle case effettivamente le compra, quelli lì che avete visto tutti in giro per la vostra città, esattamente che fine fanno? Quelle sette lettere marcate indelebili su cartoncino lucido, quelle coraggiose tre sillabe che hanno veduto pioggia colare in rivoli sotto ombrelli curiosi, che hanno dorato al sole, che hanno sopportato mani invadenti e irrispettose e che hanno vissuto immobili e coriacee una partenza lacerante ed un arrivo incerto, dove finiscono, una volta compiuto il loro ineluttabile e malinconico passa-mano? Saranno, quei nuovi tizi che pare abbiano telefonato ieri sera,  (offrono tanto, questa volta, me l'ha detto lo zerbino del portone), rispettosi e gentili al punto da conservarli con dignità in un angolo della loro nuova casa e della loro nuova vita?

Dove scappano le saracinesche quando i negozianti tornano dalle ferie e con un colpo di reni e di orgoglio le lasciano scattare verso l'alto, e quelle scompaiono cigolando permalose?

E tutte le risate, una volta placati i sussulti della pancia? Dove volano, una volta colorato quell'istante?

Dove vanno le lacrime una volta asciutte, i baci una volta schioccati, le lentiggini passata l'estate e i brividi passato l'amore?

martedì 15 maggio 2012

Rotatoria, -ae

Da parecchie settimane, ormai, a Spilamberto costruiscono una rotatoria nel bel mezzo del paese. Costruiscono una rotatoria e spazzano via, finalmente, un paio di semafori infiniti e un incrocio bizzarro che tappava sempre il flusso consueto e solidale delle macchine verso Modena.

E' da parecchie settimane, ormai, che passo di lì e trovo, giorno dopo giorno, il cantiere che procede, lentamente ed inesorabilmente, verso la realizzazione del suo obiettivo. Non tutto era chiaro, i primi tempi: non si capiva ancora se stessero scavando per impiantare cavi o tubature o se lo scopo fosse una modifica della viabilità. Sono passate le feste e i convulsi ponti del primomaggiosucoraggio. E' venuto a piovere, è arrivato il caldo, e poi di nuovo la pioggia e un freschino da montagna che fa brillare occhi e cuori. E il cantiere, giorno dopo giorno, ha svelato la sua identità e dato bella mostra dei suoi frutti. Un semaforo provvisorio, delle linee curve gialle in terra: viaggio dopo viaggio, canzone all'autoradio dopo canzone all'autoradio, ho visto crescere e scalciare e spingere la nuova rotatoria di Spilamberto e ieri, finalmente, sono passata di lì e il semaforo provvisorio non c'era più.
C'erano un paio di uomini in vestiti fluorescenti da lavoro che parlavano e gridavano al telefono; c'erano ancora tante linee gialle che litigavano tra di loro; c'era ancora terra, e cemento, e confusione, ma la rotatoria era nata e funzionante. E io, da scema qual sono, ho rallentato un poco per poter togliere le mani dal volante senza rischiare di ammazzarmi e ho applaudito da sola, tra le pareti della panda, a quell'insignificante miracolo urbano che, centimetro dopo centimetro, avevo visto prendere forma.

Ieri notte, poi, mentre tornavo a casa da una strada secondaria che non percorrevo da qualche giorno, e all'autoradio passavano questa canzone che fin dalle prime note mi appiccicava addosso un'inspiegabile paura di felicità che ancora adesso posso sentire seduta al mio fianco sul tavolo di cucina, beh, insomma, io guidavo nella notte gialla dei lampioni e dei dossi e ho svoltato a destra e zac sulla strada secondaria che non percorrevo da qualche giorno ci ho trovato dentro una rotatoria piccola nuova e quasi inspiegabile. Così, su due piedi, o meglio su quattro ruote. E ho detto benvenuta anche a lei. Perplessa, e sbalordita, ma comunque contenta perché a me le rotatorie piacciono - dev'essere una tara famigliare, un po' come i polpacci grossi e la cellulite - e più ce n'è e meglio è, ho dato il benvenuto, nella stessa giornata, alla rotatoria epica di Spilamberto e a quella modesta di San Vito.

E mica l'ho capito, se sono stata più contenta di trovarmene davanti una bella e pronta e inaspettata, o di curarne, giorno dopo giorno, con i miei sguardi e la mia pazienza al semaforo provvisorio, una gestazione finalmente e meritatamente giunta a compimento.
Cosa preferisco io, Tinni, le lacrime di commozione per una sorpresa o il sudore di una casa edificata insieme mattone dopo mattone? Preferisco il vento nei capelli mentre si sfreccia in cabriolet, o l'inverno buono in due sul divano a leggere sbriciolando dallo stesso libro? Preferisco la rotatoria di San Vito o quella di Spilamberto?

Non so; proprio no. Voi che dite?



Che poi, in fin dei conti, nessuno mi ha chiesto di scegliere. In una sola, meravigliosa, giornata, me ne sono trovata davanti alla porta due, di rotatorie, belle, entrambe, e dotate di ogni confort e di ogni uscita e di appositi cartelli di segnalazione. Forse, allora, basta mettere la freccia ed infilarcisi dentro; basta capire in quale corsia incolonnarsi e scivolarci veloce all'interno prima che arrivi quel camioncino; e quella paura di felicità, beh, accompagnarla gentilmente alla porta ringraziandola della visita ma no, non compriamo niente, arrivederci.

domenica 25 marzo 2012

Inezie irrazionali

Mi rendo conto solo ora che ho una vera e propria passione per le inezie di irrazionalità: quei puntolini di non senso che punzecchiano le nostre successioni seriose di istanti giornalieri, quelle manovre impreviste ed incomprese, quelle sviste volute a mezza bocca che facciamo - e spesso, purtroppo, senza nemmeno accorgercene più - senza alcun tipo di ragione intellegibile e, anzi, palesemente in contrasto con essa. E che dopo averle fatte e gustate ce le rigiriamo tra le mani come un lembo di coperta morbida, che sa di noi.

C'è una strada, per andare da Castelvetro a Modena, che rappresenta la banale alternativa in parallelo del percorso più veloce e che per di più offre un paio di semafori aggiuntivi. Il mio saggio ed economo padre, per esempio, non la fa mai, e nemmeno io, quando guidavo anni fa, la prendevo in considerazione. Poi c'è stato un periodo in cui ho scoperto che lungo quella strada alternativa e più lunga e più trafficata e più semaforata ci abitava un ragazzo che all'epoca mi piaceva un po', sicché ho cominciato a sceglierla per poter passare davanti a casa sua e sbirciare di sfuggita dentro al suo giardino. Ecco, adesso è davvero un sacco di tempo che questo ragazzo non mi fa più battere il cuore all'impazzata, eppure mi piace lo stesso guidare per quel pezzo più lungo, più trafficato e più ingorgato di strada perché passo davanti a quella casa e faccio finta che da quelle finestre mi saluti sempre qualcuno, che altri non è che un ricordo di una cosa e di un periodo simpatico della mia vita e quando passo sta sbattendo i tappeti fuori dal balcone e mi fa ciao ciao e io sono un pizzico più felice.

Oppure, quando sto in un parcheggio grande e ci sono un sacco di posti vuoti, mi diverto a parcheggiare la panda rossa vicino ad un'altra macchina con cui immagino potrebbe fare amicizia: meglio se una panda anch'essa, oppure un'utilitaria dai colori sgargianti, oppure, se mi va di strafare, vicino ad una decappottabile sportiva e tirata a lucido (di certo mai vicino ad un suv).

E quando vado a riprendere l'auto dopo una giornata di lontananza di solito la saluto e mormoro qualche parola a mezza voce, oppure di tanto in tanto accarezzo il volante in gesto di affetto.

Lo faccio davvero, giuro. Ma la maggior parte delle volte non mi accorgo sul serio di farlo. Sono per lo più automatismi scemi, ma se mi fermo a rifletterci sopra e mi riguardo da fuori, allora mi viene da sorridere e sì, allora sono un pizzico più felice.

Mi piacerebbe sapere se anche nelle vostre vite ci sono segmenti di irrazionalità affettuosa, e soprattutto quali sono. Io, ancora, ho abiti che indosso quando sono impaurita e ho voglia di sentirmi abbracciata da un gigante buono che mi dia conforto, oppure scarpe che metto solo quando sono felice, e canottiere per le grandi occasioni che nessuno mai vedrà che ci sono, là sotto, ma io la mattina quando mi vedo a spalle nude davanti allo specchio mi sento più io.

Ma la cosa scema e simpatica e irrazionale di cui volevo parlarvi oggi nello specifico dopo tutta questa parabolica introduzione è un po' difficile da spiegare ma quando mi accorgo che la sto facendo di solito sono due pizzichi più felice di prima.

Succede, in poche parole, che quando sto tanto tempo con una persona e questa persona mi piace o la ammiro o le voglio bene in un modo o nell'altro, ad un certo punto introietto in un cassetto della mia routine di gesti quotidiani un pezzetto di lei e lo tengo, spesso senza saperlo, lì dentro per un paio di settimane. Quel pezzetto di gestualità minuta se ne sta dentro al cassetto della mia routine buono buono per un periodo e poi, un giorno, come i crochi a primavera, bussa piano e se sono attenta a sentirne il toc toc e lo faccio uscire alla luce, ecco che salta fuori e me lo ritrovo addosso, e lo sto agendo io, quel segmento di gestualità. Ed è una sensazione bellissima che assomiglia tanto alla parola amore, quella di ritrovarsi addosso un gesto non proprio e di riconoscerne l'odore e la provenienza. E' una sensazione dolce ed impertinente e per un attimo consente un paio di violazioni all'ordine fisico delle cose costituite ed è come stare dentro allo stesso guanto in due mani diverse, si sta caldi e vicini.

E visto che caldi e vicini si sta bene, allora poi finisce che il gesto banale e meccanico, dopo che me lo sono scoperto addosso, lo ripeto più e più volte, magari nell'arco della stessa giornata, come quando si torna vicino al fuoco in una sera fredda, appena si può, anche se si deve fare altro e raccogliere legna.

La persona di cui ho già parlato altre volte e che mi ha fatto compagnia per un pezzo di strada parigina aveva un modo tutto suo, per esempio, per grattarsi la parte esterna del naso e piegava l'indice e lo strofinava tra guancia e naso e nel frattempo aggrottava l'espressione del volto. Me lo sono ritrovata addosso dopo parecchi mesi dacché lo avevo salutato per sempre, quello strofinio leggero, un giorno che andavo a ripetizioni a Puianello - ancora lo ricordo - e mi aveva fatto stare bene come la coscienza di aver portato a termine una cosa giusta e bene.

La mia migliore amica delle superiori, invece, aveva delle dita lunghe e magre e mobilissime, e portava sempre un elastico per capelli infilato tra indice e medio, non calato fino in fondo, però, diciamo fermo tra prima e seconda falange, e da un giorno all'altro ho cominciato a metterlo io pure in quella posizione, anche se non usavo elastici per capelli perché all'epoca avevo una insensata chioma da maschietto. E ancora oggi, che di elastici per capelli ogni tanto ne uso, se mi ricapita di doverne tenere uno a portata di mano e mi succede che lo infilo tra indice e medio, ecco che la Fra mi torna in mente e insieme a lei tutto quel mare meraviglioso di banali complicità che solo a scuola si possono costruire e in quel modo così solido ed immediato.

Beh, tutto questo per dire che l'altro giorno mi sono ritrovata addosso un gesto nuovo; e come al solito ci ho messo cinque minuti buoni, prima di accorgermi che non era roba mia ma che lo stesso sapeva un po' di casa. Stavo andando a ripetizioni in macchina, tanto per cambiare, e ad un certo punto le mie dita ecco che accarezzavano la fronte perplessa con un movimento strisciato che non avevano mai avuto, e allora mi sono guardata bene allo specchietto retrovisore e anche se l'immagine riflessa era semplicemente quella di una tizia che si gratta la fronte con due dita, io mentre lo facevo e lo rifacevo riassaporavo il colore di quella persona lì ed ero un pizzico più felice. Anzi due pizzichi.


giovedì 16 febbraio 2012

Tutte le direzioni

C'è stato un tempo in cui il cartello stradale tutte le direzioni con freccia annessa lo avevo visto solo in luoghi remoti e lontani, e già allora mi aveva lasciato perplessa ed interdetta.

Poi è arrivata la grande Coop di Castelvetro - evento la cui portata socio-economica su scala locale può esser paragonata agevolmente a quella dell'invenzione della macchina a vapore - e, all'uscita del macsi parcheggio ad essa preposto, un bel giorno ha fatto la sua comparsa lui, il famigerato cartello tutte le direzioni  (con freccia a destra).

E così, da esperta conoscitrice della mappa stradale dei dintorni, ho potuto riflettere in piena autonomia sul senso e sull'utilità pratica di quella fastidiosa indicazione.

Perché - io mi chiedevo - come accidenti è possibile che a destra si vada in tutte le direzioni? E, a sinistra, cosa resta? Il vuoto cosmico? Il nulla de La Storia Infinita? Il lupo cattivo? E chi abita in quelle case lì, quelle sulla sinistra, deve comunque svoltare a destra per tornare dalla mogliettina o dal papà? Da quando in qua per dirigersi verso Reggio mi tocca svoltare in direzione Bologna? Ma, soprattutto, chi è che decide di piazzare una cartello del genere in un incrocio? C'è un ufficio-cartelli-tutte-le-direzioni provinciale? O regionale, forse?



Lo trovavo, insomma, una gran presa per il culo (cit.). E quello della Coop di Castelvetro non fa eccezione, intendiamoci: dice di svoltare a destra, ma a sinistra, che io sappia, ci sono un sacco di cose simpatiche che meriterebbero di essere annoverate a pieno titolo tra le 'direzioni': c'è il maneggio, il ponticello che aprono per la sagra dell'uva così si taglia il paese e si va diretti verso Levizzano, c'è l'unico, glorioso, bedenbrecfast, c'è la stradina bianca per Villabianca (appunto), c'è la lavanderia self service (mai visto dentro anima viva, ma forse è anche colpa di quel dannato cartello, poverina), ci sono un bel po' di case di privati cittadini e poi c'è il Torrente Guerro. Ecco. Uffa.

E mentre scrivo queste irriverenti ma combattive considerazioni, mentre mi adopero per restituire a questi luoghi un pizzico della dignità che spetta loro, mi rendo conto che tutto questo astio verso quel cartello e verso la sua stupida, banale, limitatezza, altro non è che un fastidio esistenziale ben più ampio.

Perché è vero, accidenti, che a volte per andare a sinistra ti tocca svoltare a destra, e lo sai bene, mentre lo fai, che non è certo la strada più breve, ti rendi conto che non ti viene naturale, che fa pure un po' male, lì da qualche parte in una zona del corpo che qualcuno chiama cuore. Lo sai bene e una volta o l'altra farai pure la mattata di provarci lo stesso, ad andare a sinistra per davvero. Però sai anche che sarà inutile.

Ché quelli che li piazzano, i cartelli tutte le direzioni, sanno il fatto loro, e a te, quando esci dalla Coop a fine giornata con le borse della spesa sul sedile del passeggero come compagnia silente di un tramonto in mezzo alla neve, a te non resta che mettere la freccia (sempre) e assecondarli. E al Torrente Guerro, in effetti, ci si arriva anche da là.

domenica 4 settembre 2011

Quarta marcia

Essendo Tinni nata e cresciuta in una delle più celebri terre dei motori italiche, una provincia dove, in ogni percorso piccolo a piacere che tu debba effettuare lungo le strade della zona è prevedibile che incontrerai un numero variabile da 2 a 4 Ferrari dai colori sgargianti e dai rumori a dir poco molesti, l'unico luogo al mondo (lo spero!) in cui ci si azzarda a costruire cose come queste per poi definirle "ben armonizzate con l'ambiente circostante" (vi prego cliccate nel link la galleria delle foto poi ditemi se sono pazza io), vicino ad un paese dove il parroco suona le campane a festa se il cavallino vince una gara, insomma, avete capito, ecco, essendo Tinni nata in queste terre, benché non possegga - contrariamente al novantanove per cento dei suoi compaesani, indipendentemente dal sesso e dall'età - una bencheminima passione per i motori, oggi Tinni vi proporrà una riflessione metafisica che parte proprio dall'osservazione delle marce dell'automobile, giusto per non tradire troppo le sue prosaiche origini.

Tinni, dunque, vorrebbe sottoporre alle vostre attenzioni la bellezza - a suo parere troppo bistrattata - della quarta marcia.

Si è soliti pensare (o meglio, Tinni era solita pensare) che la marcia più simpatica (e non venitemi a dire che voi non ne avete una, di marce che preferite, anche se non siete nati a Maranello!) sia la quinta, perché è quella con cui si sfreccia in autostrada, quella che consuma meno, quella che non 'tira' il motore, quella che ti dà quel senso di beata onnipotenza quando volteggi per una strada vuota, la notte, e senti che l'asfalto ti appartiene, che solo tu lo sai prendere, che l'hai conquistato fino a fargli ammettere che sei tu l'amico più caro.

E invece, alla luce di tante acquisizioni recenti, lungo il suo personalissimo ed aggrovigliato percorso stradale, Tinni si sta ricredendo. Perché sta lentamente scoprendo, chilometro dopo chilometro, che viaggiare in quarta è un piacere non da poco.

La quarta marcia ama vivere in un angolino; non è la marcia leader e non ha mai vinto una competizione in vita sua. A scuola, la quarta marcia, aveva la media del sei e mezzo. Che non è mica una brutta media, eh, per carità! La terza marcia e, soprattutto, la seconda, loro sì, che andavano male a scuola: sempre insufficienze, assenze, piccoli atti di vandalismo. La quinta, dal canto suo, andava benissimo in tutto, compreso in educazione fisica, che di solito è quella materia in cui i secchioni fanno fiasco.
Eppure la quarta marcia non sentiva di essere trattata ingiustamente, a scuola; non si lamentava di chi prendeva più di lei e nemmeno snobbava chi prendeva meno. Semplicemente, faceva il suo. Stava lì, seduta pacatamente in un banco da tre, alla sua sinistra la scavezzacollo terza e alla sua destra l'eccellente quinta.

Ma tutti, in classe, sapevano che, se si aveva un problema, era da lei, dalla quarta marcia, che bisognava andare. Perché solo lei aveva quel modo di guardarti dentro, piegando la testa un poco su un lato e mordendosi inconsciamente il labbro, quel modo di guardarti dentro e di dire non è colpa tua, te la caverai, sei forte. Oppure di sussurrarti, senza recriminazioni vai là e chiedigli scusa, vedrai che tutto si sistema. O ancora di ridere e di tintinnare lo sguardo alle tue battute, o di capire che era il momento di accompagnarti in bagno con una scusa e di ascoltarti piangere, fino all'ultima lacrima.

Perché è con la quarta marcia che trovi la forza per sorpassare quel camion puzzolente che non finisce più. E' con la quarta marcia che attraversi le città piene di strisce pedonali e di persone e di auto parcheggiate in seconda fila e di portiere aperte all'ultimo minuto.
La quarta marcia si fa il lavoro sporco: dai 50 chilometri orari agli 80: copre uno spettro di velocità mica da poco, rispetto alle altre, e lo fa senza batter ciglio.

E a Tinni viene da pensare che vorrebbe una compagna di banco proprio come lei, come la quarta marcia, se tornasse alle superiori (anche se in realtà l'ha già avuta, e non smetterà mai di pensarla con un sorriso, anche se non la sente da tanti anni, la sua fedele compagna di banco F.). E che, anzi, la augura anche a ciascuno di voi.

Buona domenica!

venerdì 26 agosto 2011

Fratelli d'Itraccia

(nota: volevo fare, una volta tanto, un titolo simpatico e intelligente come quelli di Plus, lo so che il risultato è sul triste andante, nonostante ore di riflessione, ma pazienza: apprezziamo il tinnico sforzo)

Vorrei semplicemente annotare e dar forma al sentimento di euforia intellettuale ed emotiva suscitato dall'ascoltare, seduti in una macchina altrui, una playlist su cd od mp3 (quanto è borioso dire OD, da uno a dieci? undici.) nella quale numerose ed evidenti sono le consonanze con i propri, personalissimi, gusti musicali. Specie se i suddetti gusti sono strampalati ed inconfessabili; specie se si pensava di essere gli unici sulla faccia della terra a conoscere quel brano delle Spice Girls estratto da un album di cui le radio hanno passato solo il singolo a ripetizione, e lo sappiamo tutti che le Spice Girls non sono un gruppo musicale degno di questo nome e fanno musica che qualunque essere dotato di raziocinio e non subnormale (omaggio a N.) non ascolterebbe nemmeno sotto tortura eppure in quel brano lì c'era qualcosa di simpatico che solo VOI pensavate di aver colto e invece no. Specie se quell'altra canzone che arriva manco ve la ricordavate più, dal primo anno di università; eppure appena la sentite vi torna su tutta la memoria, eccola qui, è di nuovo lei, e a quell'epoca la sentivate a ripetizione, e ritorna alla mente con tutto il bagaglio di ricordi belli e di emozioni attaccato come ad un amo, ed è incredibile che anche il proprietario di questa automobile se la ricordi ancora tanto da inserirla in un cd, visto che è stata giusto la canzone di un'estate e poi via, nel dimenticatoio delle radio e delle discoteche.



E insomma voi siete lì, seduti sul sedile di dietro che è anche il mio posto preferito per osservare un'auto altrui, guardate il paesaggio fuori e d'improvviso lo trovate non bello, che magari siamo sulla Pedemontana che porta a Sassuolo e di bello c'è veramente poco, ma simpatico, quello sì; trovate che ad un tratto il paesaggio vi strizza l'occhio, e il proprietario dell'automobile è un po' di più vostro amico e voi diventate per un attimo più allegri, un poco euforici; anche se, in fondo, si tratta semplicemente di coincidenze, oppure di ovvietà, perché magari il conducente nonché produttore di playlist ha la vostra età ed è piuttosto prevedibile che in quarta superiore o alla fine dell'università ascoltasse quella musica, ma tant'è.

Con l'allegria, quando arriva, non c'è poi da essere così schizzinosi.

giovedì 25 agosto 2011

Ingegnosità sotto al solleone

(nota: in un primo tempo avevo pensato di intitolare il pezzo fantasie bollenti, ma visto che continuo ancora oggi a ricevere visite per così dire inopportune a questo mio vecchio post ho optato per un inizio meno fraintendibile. Anche perché da tempo ormai sostengo che la parola solleone abbia un che di sublime. Voi non trovate?)

Due simpatiche idee per affrontare il caldo torrido che ci tormenta. Dalla vita reale, o meglio, da un unico, istruttivissimo nonché esilarante viaggio in macchina.

idea A.
Piazza di paese; due vecchietti, uno dei quali brandisce eroicamente quell'affare che sputa aria da un tubo al fine di spostare le foglie cadute a terra per meglio spazzarle ed eliminarle dalle strade. L'amico, interrompendo sudato e concitato l'operato del soffia-foglie, gli fa un cenno e sembra chiedere qualcosa. Si mette poi in posizione ben eretta di fronte a lui, con le braccia aperte e gli occhi chiusi. Il possessore del tubo sputatore, in risposta alla cordiale richiesta, phona accuratamente l'amico con il getto d'aria. Espressione beata del vecchietto che ha trovato il modo di asciugarsi un po' di sudore.

idea B.
Strada rovente di città. Macchine in fila al semaforo. Un signore di mezza età mi sorpassa con il suo motorino scassato. Indossa un regolamentare casco di quelli detti a scodella, con il suo bravo laccetto chiuso sotto al mento. Tra il laccetto e le due guance del conducente, una per parte, due confezioni (chiuse) di mozzarella. Espressione beata del motociclista al contatto con le due superfici fresche.