Respirazione diaframmatica, la chiamano.
Inspirare: gonfiare l'addome, riempirlo di aria nuova che fatica a scendere fino lì, si inceppa tra le pieghe di un cuore sobbalzante e si appiccica sulle pareti di una pancia già gonfia d'altro (ahimè, i fagioli di ieri...); e poi espirare: appiattire gli stessi muscoli, cacciare via forzatamente ogni particella di vapore già vecchio ed inutile, partendo dal fondo - mi raccomando - e poi su fino alla gola, ed emettere un sibilo stanco a riprova che quel movimento accade davvero, che qualcosa di brutto è stato espulso e siamo pronti per ricominciare dall'inizio.
Dunque ancora: inspirare, gonfiare, introdurre; e poi nuovamente espirare, soffiare, appiattire.
Nel giro di poche settimane me lo hanno raccomandato due specialisti, interpellati in luoghi e contesti diversi per disfunzioni corporee che non potevano apparire più lontane le une dalle altre.
E così mi sono messa d'impegno.
In macchina, soprattutto, lungo un tragitto nuovo che ormai inatteso più non è, tra un ponte, una rotonda (mica ci sanno girare, i Carpigiani, sulle rotatorie, è incredibile: ma questa è un'altra storia), una fabbrica puzzolente e lui: il recinto della fattoria. Eh sì, perché tra un respiro diaframmatico e l'altro, ogni mattina, poco dopo aver passato il parcheggio di Martin Grigliate (se mi sposo, giuro che li chiamo al pranzo di nozze), sulla sinistra trovo ad attendermi un cortile, chiuso solo da un mite steccato, all'interno del quale, a pochi metri dalla strada trafficata, altrettanto mitemente convivono diversi animali domestici. Galline, tacchini, capre, pecore, conigli, oche; una casetta di legno, al centro; covoni di fieno, qua e là; un fiocco rosa, appeso giusto davanti alla porticina di ingresso, che cela al passante ulteriori dettagli sulla specie animale neo-nata.
Respiro diaframmaticamente e faccio pure gli esercizi di dizione, articolando a bocca spiegata le vocali mentre - senza far vibrare le corde, mi raccomando! - butto fuori l'aria e rendo concavo il mio povero ventre, tutti i giorni, finendo di solito qualche metro prima di cominciare a sentire il puzzo di una fabbrica sulla quale mi riprometto sempre di chiedere lumi a qualche collega del luogo (che razza di odore è? I primi tempi in cui ci passavo davanti, senza rendermene conto, attribuivo quell'afrore ai miei piedi, benché accuratamente ricoperti di calze e calzature; ci sono voluti almeno due mesi di rimproveri alla mia pedicure per realizzare che la puzza veniva da fuori - tutti i giorni, alla stessa altezza del percorso - e che probabilmente corrispondeva alle emissioni di quel grande edificio grigio alla mia destra). Respiro insomma con dedizione, e nel frattempo mi interrogo sul senso di questi malanni sopraggiunti tutti insieme, mentre attendo con dolore l'avvistamento del primo capello bianco, a cui si sommano le preoccupazioni quotidiane, le caselle di voti da riempire, la pizza d'asporto troppo gommosa nel nuovo quartiere, le malattie altrui, i prezzi delle scarpe da ginnastica, le amiche del liceo sorridenti e realizzate che fanno capolino dalle foto di instagram, i messaggi in coda per ricevere risposta, la ripetizione di oggi pomeriggio.
Lo faccio ormai da qualche tempo, e ultimamente sia all'andata che al ritorno. E' stato proprio al ritorno, circa una settimana fa, dopo la fabbrica-puzza-di-piedi, prima di Martin Grigliate, all'altezza del metanista scorbutico ma efficiente, che meccanicamente, tra un'inspirazione ed un'espirazione, ho girato la testa verso destra e ho incontrato con gli occhi un nuovo abitante del recinto della fattoria.
Un asino.
Già simpatico di suo, con quel fare sornione e solo apparentemente disinteressato, traboccante in realtà - ne sono sempre stata certa - di pensieri acutissimi sul vivere umano. Ma in questo caso doppiamente degno della mia attenzione.
Perché il nostro amico asino, in quel momento, fermo immobile in mezzo al cortile, portava sulla schiena, in perfetto equilibrio, una gallina e un tacchino, appollaiati lì come se niente fosse.
Ho evitato a stento un tamponamento. Com'era possibile che, dall'alto di tutta quella intelligenza mal sopita, saggio per secoli di osservazione attenta, accettasse un simile compromesso con due creature avide ed egoiste, che nulla di certo rendevano in cambio di quella irrituale invasione?
Eppure lui - e forse proprio in questo si nasconde l'ennesima conferma della sua natura superiore - non ne sembrava afflitto affatto.
Forse, a lui, la respirazione diaframmatica serve per cullare i suoi ospiti - ho pensato.
E mentre un sorriso stentato saliva dal mio diaframma al mio volto, storto ma fiero di essere riuscito, anche questa volta, anche a dispetto della fame e dell'afonia, ad appiccicare un post-it positivo sui pensieri dei dintorni, in coda a quel sorriso, appesa ad esso come ad un amo di pesca miracolosa, è arrivata un'idea didattica per un'attività di classe - la Mia classe, quella che in questo anno nuovo sto amando di più, anche se è una gara dura - che immediatamente mi è sembrata fichissima e che ho subito provveduto, diaframmaticamente gongolando, a scomporre, arricchire, dettagliare, e mentalmente annotare. Sentendomi, finalmente e improvvisamente, libera da ogni acciacco.
Merito della respirazione, del serafico asino, o dei due prepotenti intrusi?
Stamattina ho cercato di sghembo l'asino per ringraziarlo dell'ispirazione.
Non c'era più.
Qualcuno di voi potrebbe ipotizzare che fosse dentro alla casupola di legno, ancora avvolto nel suo placido sonno.
Io preferisco pensare, invece, che l'ispirazione sia stata condivisa, e che tra un respiro diaframmatico e l'altro egli abbia concepito un piano di fuga geniale e definitivo, e che ora vaghi per le praterie della bassa modenese assaporando erba e libertà.
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