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giovedì 14 febbraio 2019

L'Alta in basso e la Bassa in alto (o del Dio Appennino)


Ultimamente si è fatto un gran parlare di Emilia-Romagna e ne sono scaturite diverse cose belle, in quell'universo in recente rinascita che è la blogosfera. Ci ho partecipato anche io, prima da ospite e poi (con la stessa storia), a casa mia, cioè qui. Ché anche se la stanza è disabitata da tanto, non per questo devo smettere di lavare le tendine alle finestre.

Certe cose è la Natura ad infilartele in un cassettino, sotto i fazzoletti col monogramma, e forse ci metti un po’ a capire che sono tue, proprio tue, e che non tutti gli altri le hanno ricevute uguali.
Con la patente appena firmata in una tasca e un sorriso indelebile spennellato sul volto, non ho mai avuto paura a ripartire in salita, dopo un incrocio o un semaforo; mi sembrava che il freno a mano fosse sempre stato lì, come un rassicurante zio sul divano la domenica pomeriggio, e sapevo che, a tenergli la mano (anche solo un accenno di tocco, ché lo zio non è mai stato un tipo da effusioni manifeste), qualunque insormontabile inghippo avrebbe assunto in pochi istanti le proporzioni di un lievissimo, impercettibile sobbalzo.
I miei compagni di classe cittadini cambiavano con molta più agilità le corsie della tangenziale; forzavano gli attraversamenti a sinistra, parcheggiavano a esse in due mosse, partivano rombando alla prima sfumatura di verde.
Poi però avevano paura delle partenze in salita.
Ed è stato lì, a diciotto anni, che improvvisamente ho capito – io di solito sempre così fifona, sempre così abituata a coltivare le paure più sceme – che avevo una cosa tutta speciale nascosta nel cassettino, e non per merito mio. Non avevo paura. Sapevo fare con scioltezza una manovra che agli altri incuteva timore. Ed era la Natura che me l’aveva messa lì, questa cosa, sotto forma di pendenze e tettonica.

E quando dico Natura, intendo proprio la natura della provincia di Modena, e di quel lembo di provincia in cui ero nata e cresciuta, cioè – come diciamo noi modenesi – l’Alta.
Tutti i modenesi sono nati o nella Bassa o nell’Alta; e chi è cresciuto a Modena città resta solo apparentemente fuori dai giochi: avrà almeno un nonno o un prozio da incasellare in una delle due categorie.
L’Alta comincia un centimetro a sud del territorio comunale del capoluogo, e la Bassa qualche millimetro verso nord. Siamo fatti così, qui a Modena: ci piacciono le cose progettate bene, le righe precise, gli orari spaccati; e poi però abbiamo l’Alta in basso e la Bassa in alto. Qualcuno dà la colpa all’Appennino, dice che si è messo dalla parte sbagliata della carta. Secondo me lo ha fatto apposta – e bene – , altrimenti saremmo stati tutti troppo noiosi e pertinenti.
Io sono nata in un’Alta decisamente temperata – le prime colline, a 25 chilometri appena dalla civilissima capitale – ma le partenze in salita, per andare “su in castello”, hanno fatto sempre parte del mio orizzonte; fin da quando, in castello, ci andavo a piedi alle elementari, e mi sembrava normale sporgermi dalla piazza della Dama, dopo aver salito senza fiato i novantanove scalini, e vedere di sotto i vigneti rincorrersi a perdifiato.
L’Alta ha infilato nel mio cassettino la dimestichezza con le partenze in salita, con le ciliegie, con la neve che viene sempre di più a casa nostra che altrove (che a scuola, che al lavoro da mio padre, che a casa dei compagni di classe); mi ha insegnato, con dolcezza e pazienza, il significato del termine pittoresco, e anche quello delle parole noia e isolamento. L’Alta ha guidato i miei piedi la prima volta che sono salita su una balla di fieno, ha tagliato l’aria davanti a me quando sudavo e arrancavo per raggiungere gli amici a Vignola, in bicicletta, per soli ed interminabili sette chilometri di saliscendi stradali, mi ha dato da bere l’acqua fresca di Pavullo, nelle gite fuori porta del finesettimana. La Bassa mi appariva come una landa lontanissima e impenetrabile: un po’ per la nebbia, che mi dicevano regnasse sovrana, e un po’ per l’effettiva distanza chilometrica. Questo lo sanno non solo i modenesi, ma anche tutti gli insegnanti precari assegnati, per scelta o giocoforza, alla provincia suddetta: Pievepelago e Finale sono davvero parte dello stesso universo? Il c.a.p. farebbe pensare di sì, ma google maps segnala comunque all’inesperto visitatore che distano tra loro circa centodieci chilometri.
Non ero mai stata a Carpi, Mirandola restava per me un enigma, Novi di Modena – per citare un luogo caro a chi legge – assumeva nella mia mente i contorni di un buco spazio-temporale. Le voci che narravano di queste terre esprimevano alle mie orecchie di bambina suggestionabile un sottotono di grigia disperazione. La Bassa? Per carità! Fino là? Starai scherzando! Chi può voler vivere in un luogo tanto remoto, tanto diverso dai contorni ondulati che avvolgevano gli anni belli della mia vita?
Così ho trascorso una buona fetta della mia vita; così vivono gli abitanti dell’Alta, quelli che poi si conoscono, si fidanzano e si sposano con altre persone che sanno fare le partenze in salita.
Così ho vissuto anche io, fino al settembre dell’anno 2018.
Lì, all’improvviso, quel Dio-Appennino che sa tanto bene come sparigliare le carte e mettere tutti a testa in giù, mi ha regalato il posto fisso a scuola nel più grande liceo della provincia; ma nella parte della provincia “sbagliata”. Sono finita di ruolo a Carpi.
Addio sole, addio neve, arrivederci ciliegi in fiore – mi dicevo compulsando il sito noipa.it per consolarmi almeno con quella rigonfia cifra a fine mese. Ti saluto pittoresco. Chissà che faccia avranno – mi chiedevo – questi lontani cugini: saranno grigi e composti, un po’ segnati dalle sfighe del terremoto e dell’alluvione, ma comunque efficientemente modenesi? Riuscirò a cogliere, sul fondo dei loro occhi, il triste stagno della pianura piatta e penosa? Mi perderò per quelle strade tutte uguali, senza striscia nel mezzo?


Ebbene, la provincia di Modena è stata capace di stupirmi ancora una volta, e forse più che mai: mi ha mostrato che sul fondo di quel cassettino c’era ancora qualcosa che non avevo notato, ancora qualcosa di mio ma non solo mio. Qualcosa di nostro, di tutti noi nati in quei centodieci chilometri di striscia tra il Secchia e il Panaro. Qualcosa di indefinibile, a cui non so dare etichetta, come sono tutte le appartenenze che non si fanno muro. Come i sapori buoni ed antichi, come le ciliegie e il lambrusco.
Nella Bassa mi sono sentita, comunque, a casa.

E oggi, quando devo fare metano, la mattina, e invece della nazionale per Carpi prendo le strade basse che passano per Albareto, mi ritrovo spesso ad attendere al semaforo rosso del ponte dell’Uccellino: un vecchio ponte di barche che nella sua bizzarra ma dignitosa precarietà traghetta quotidianamente fiumi di macchine al di là del Secchia. La strada per il ponte è in salita leggera, ma vista la lunga coda non voglio rischiare: accarezzo il freno a mano e parto comunque così, strizzando l’occhio a questa pendenza così sorella di quelle su cui sono cresciuta.

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