Dovevi
avere un bel po‘ di tempo a disposizione, davanti a te: questo era sicuro. Non
potevi certo ‘passare’, da quella stanza; non potevi ‘salutare’, e basta; che
non ti venisse poi in mente di farti beccare nelle strettoie dell’adiacente
biblioteca con un libro in mano e lo zaino mezzo aperto da una spalla: ed eri
lì e non ti eri fermata da loro, ‘in
studio’, come amavano tutti dire, in quella bislacca fetta di accademia che
riuniva intorno a lui i personaggi
più diversi (o forse dovrei dire le personaggie,
perché di tutte donne si trattava).
Dovevi
avere tempo, pazienza, calma e vuoto intorno a te: ci sarebbero state infatti
almeno un paio di telefonate, di bussate, di scocciature e di ostacoli vari; e
tu saresti rimasta sola, per quegli attimi, mentre tutti mulinavano sicuri nei
dintorni, ciascuno stringendo nel pugno il proprio compito, fiero e tranquillo:
la cornetta, il manoscritto, la fotografia, la tastiera di un computer.
Curiosi
funghi d’imprevisto sarebbero spuntati qua e là, nel corso della tua visita in studio, eppure, nonostante i balzelli
di attenzione, aprendo quella porta senza maniglia (si spingeva e basta; e dopo
aver bussato dovevi avvicinare l’orecchio non poco a quella superficie chiara,
se volevi sentire l’avanti da quel
fondo profondo d’interno) un’accoglienza da regina
ti avrebbe atteso: ogni volta, garantita. Sorrisi entusiastici e stavamo giusto pensando a te ti
avrebbero circondato; poi gli interrogatori di rito, le immancabili battute
puntute sui presunti nemici citati nei resoconti, e i complimenti, a festoni,
sempre. (Immeritati, almeno per metà). C’era sempre qualche progetto
traboccante dal vaso dei suoi entusiasmi
che andava raccontato, condiviso, dibattuto, chiesto in approvazione (a me! Che non contavo assolutamente nulla
in quegli ingranaggi). C’erano poi le solite telefonate, le sfuriate contro chi
veniva a disturbare, e poi di nuovo idee, collaborazioni, sistemazioni di
allievi, allegrie.
E
alla fine veniva il momento che preferivo: quello del pranzo in studio. Da improbabili cartelle per computer venivano
fuori, uno dopo l’altro, i pezzi di quel pasto che ciascuna formichina di
quella seconda casa – e lui non di
meno, questo va detto – aveva preparato nel corso della sera precedente: che
fossero avanzi della cena o cibarie allestite per l’occasione non aveva grande
importanza. Tutto sapeva di loro, e
di lui in particolare, che di quel
teatro familiare era stato l’artefice e il promotore primo. Se mancava
qualcosa, in relazione alla fame dei singoli, qualcuno – e lui mai, questo va detto – veniva spedito alla panetteria più
vicina a comprare cibi rigorosamente ‘puri’, non lavorati: sceglievano infatti –
e chissà poi perché – sempre pane e salumi e frutta, nulla di mescolato.
Se
eri capitata lì senza avvisare venivi inclusa nel pasto senza colpo ferire. Se
erano stati informati, chiedevano anche a te di portare qualcosa, foss’anche
una mela.
Ciascuno
seduto nella propria postazione (era uno studio
enorme, ricavato da antiche rovine – come tutta la struttura dipartimentale
del resto – e ogni tavolo si apriva laborioso ed esteso – ce ne saranno stati
almeno cinque, se non sei – per una superficie doppia a quella del mio di
cucina) sbocconcellava il proprio e l’altrui, mescolandolo a conversazioni
paleografiche o di costume, a termini tecnici o a parolacce (arte in cui lui eccelleva, a dispetto del portamento
da damerino), finché tutto veniva spazzolato e restava giusto uno spazietto
quadrato, sul fondo dello stomaco: quello per la celeberrima cioccolata di F.
Ed
eccoci giunti al motivo più vero per cui mi sono messa qui a ricordare, oggi,
quei riti e quei sorrisi sporchi di briciole che non torneranno più: e non
perché ormai io da Bologna ci passo assai di rado, ma perché lui, F., è morto. Morto senza un perché,
un’età appropriata, un funerale condiviso: nel bel mezzo di un’estate in cui
ciascuno pensava ai fatti suoi, e la cioccolata non si mangiava nemmeno più,
visto il caldo. “la cioccolata” –
risponderei a chi mi chiedesse che cosa lui
abbia lasciato di buono e giusto in
questo mondo: non le numerose edizioni critiche, non le borse di studio
guadagnate ai suoi allievi, non gli articoli pungenti e neppure le nozioni
impartite a frotte di studenti del secondo anno di lettere. A me, personalmente,
resta il ricordo di quelle tavolette scure (alcune più e alcune meno, perché
nell’armadio dietro alla sua scrivania ce n’era per tutti i gusti, dalla bianca
alla fondente) a cui si poteva attingere in ogni momento di crisi, ipoglicemica
o psicologica che fosse, e la scorta pareva destinata a non finire mai.
F.
mi ha insegnato le formule con cui si aprono si chiudono e si strutturano i
contratti medievali, le abbreviazioni di et
e di -que, i retroscena di molti
pezzi grossi dell’università, le ricette di alcune torte salate e, più di
tutto, a preparare nella dispensa di ogni luogo di lavoro (e non di casa, si badi,
alla quale si approda la sera, e la stanchezza del buon lavoro basta a riempire
ogni buco goloso) grosse pile di tavolette di cioccolata. A presagire l’altrui
bisogno di dolce. A costruire cattedrali effimere ma buonissime. A dire sempre avanti (e poi magari ad incazzarsi, se
hanno bussato per scocciare) e sempre tieni.
A sfidare il caldo appiccicoso impilando assicelle di fragile entusiasmo.
Che
non si sa mai.
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