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martedì 3 settembre 2013

Cioccolata postuma

Dovevi avere un bel po‘ di tempo a disposizione, davanti a te: questo era sicuro. Non potevi certo ‘passare’, da quella stanza; non potevi ‘salutare’, e basta; che non ti venisse poi in mente di farti beccare nelle strettoie dell’adiacente biblioteca con un libro in mano e lo zaino mezzo aperto da una spalla: ed eri lì e non ti eri fermata da loro, ‘in studio’, come amavano tutti dire, in quella bislacca fetta di accademia che riuniva intorno a lui i personaggi più diversi (o forse dovrei dire le personaggie, perché di tutte donne si trattava).

Dovevi avere tempo, pazienza, calma e vuoto intorno a te: ci sarebbero state infatti almeno un paio di telefonate, di bussate, di scocciature e di ostacoli vari; e tu saresti rimasta sola, per quegli attimi, mentre tutti mulinavano sicuri nei dintorni, ciascuno stringendo nel pugno il proprio compito, fiero e tranquillo: la cornetta, il manoscritto, la fotografia, la tastiera di un computer.

Curiosi funghi d’imprevisto sarebbero spuntati qua e là, nel corso della tua visita in studio, eppure, nonostante i balzelli di attenzione, aprendo quella porta senza maniglia (si spingeva e basta; e dopo aver bussato dovevi avvicinare l’orecchio non poco a quella superficie chiara, se volevi sentire l’avanti da quel fondo profondo d’interno) un’accoglienza da regina ti avrebbe atteso: ogni volta, garantita. Sorrisi entusiastici e stavamo giusto pensando a te ti avrebbero circondato; poi gli interrogatori di rito, le immancabili battute puntute sui presunti nemici citati nei resoconti, e i complimenti, a festoni, sempre. (Immeritati, almeno per metà). C’era sempre qualche progetto traboccante dal vaso dei suoi entusiasmi che andava raccontato, condiviso, dibattuto, chiesto in approvazione (a me! Che non contavo assolutamente nulla in quegli ingranaggi). C’erano poi le solite telefonate, le sfuriate contro chi veniva a disturbare, e poi di nuovo idee, collaborazioni, sistemazioni di allievi, allegrie.

E alla fine veniva il momento che preferivo: quello del pranzo in studio. Da improbabili cartelle per computer venivano fuori, uno dopo l’altro, i pezzi di quel pasto che ciascuna formichina di quella seconda casa – e lui non di meno, questo va detto – aveva preparato nel corso della sera precedente: che fossero avanzi della cena o cibarie allestite per l’occasione non aveva grande importanza. Tutto sapeva di loro, e di lui in particolare, che di quel teatro familiare era stato l’artefice e il promotore primo. Se mancava qualcosa, in relazione alla fame dei singoli, qualcuno – e lui mai, questo va detto – veniva spedito alla panetteria più vicina a comprare cibi rigorosamente ‘puri’, non lavorati: sceglievano infatti – e chissà poi perché – sempre pane e salumi e frutta, nulla di mescolato.

Se eri capitata lì senza avvisare venivi inclusa nel pasto senza colpo ferire. Se erano stati informati, chiedevano anche a te di portare qualcosa, foss’anche una mela.

Ciascuno seduto nella propria postazione (era uno studio enorme, ricavato da antiche rovine – come tutta la struttura dipartimentale del resto – e ogni tavolo si apriva laborioso ed esteso – ce ne saranno stati almeno cinque, se non sei – per una superficie doppia a quella del mio di cucina) sbocconcellava il proprio e l’altrui, mescolandolo a conversazioni paleografiche o di costume, a termini tecnici o a parolacce (arte in cui lui eccelleva, a dispetto del portamento da damerino), finché tutto veniva spazzolato e restava giusto uno spazietto quadrato, sul fondo dello stomaco: quello per la celeberrima cioccolata di F.

Ed eccoci giunti al motivo più vero per cui mi sono messa qui a ricordare, oggi, quei riti e quei sorrisi sporchi di briciole che non torneranno più: e non perché ormai io da Bologna ci passo assai di rado, ma perché lui, F., è morto. Morto senza un perché, un’età appropriata, un funerale condiviso: nel bel mezzo di un’estate in cui ciascuno pensava ai fatti suoi, e la cioccolata non si mangiava nemmeno più, visto il caldo. “la cioccolata” – risponderei a chi mi chiedesse che cosa lui  abbia lasciato di buono e giusto in questo mondo: non le numerose edizioni critiche, non le borse di studio guadagnate ai suoi allievi, non gli articoli pungenti e neppure le nozioni impartite a frotte di studenti del secondo anno di lettere. A me, personalmente, resta il ricordo di quelle tavolette scure (alcune più e alcune meno, perché nell’armadio dietro alla sua scrivania ce n’era per tutti i gusti, dalla bianca alla fondente) a cui si poteva attingere in ogni momento di crisi, ipoglicemica o psicologica che fosse, e la scorta pareva destinata a non finire mai.

F. mi ha insegnato le formule con cui si aprono si chiudono e si strutturano i contratti medievali, le abbreviazioni di et e di -que, i retroscena di molti pezzi grossi dell’università, le ricette di alcune torte salate e, più di tutto, a preparare nella dispensa di ogni luogo di lavoro (e non di casa, si badi, alla quale si approda la sera, e la stanchezza del buon lavoro basta a riempire ogni buco goloso) grosse pile di tavolette di cioccolata. A presagire l’altrui bisogno di dolce. A costruire cattedrali effimere ma buonissime. A dire sempre avanti (e poi magari ad incazzarsi, se hanno bussato per scocciare) e sempre tieni. A sfidare il caldo appiccicoso impilando assicelle di fragile entusiasmo.
Che non si sa mai. 

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