Qualche mese fa mi è stato chiesto di scrivere un pezzo sulle pagine dell'opuscolo dedicato, pubblicato e distribuito per l'occasione. Lo appoggio anche qui, come tutto ciò che esce dalla tastiera di questo computer e che mi dà gioia rileggere.
(W la squola.)
Caro Manfredo,
sono ormai ottant’anni che esiste una scuola
intitolata alla tua memoria e nel prepararci ai festeggiamenti qualcuno di noi
ha avuto la curiosa idea di venire a chiederti come stai.
Ottant’anni, sì: precisi. Sappiamo contare
bene, perché la scuola è nata come liceo scientifico e ha già conosciuto diverse
generazioni di irriducibili insegnanti di matematica. Sono solo ottant’anni e,
no, non si tratta dell’Accademia Militare di Modena, che pure tu hai
gloriosamente contribuito a fondare ben centosessant’anni fa; forse la notizia
ti deluderà, ma siamo un semplice liceo di provincia, nella tua città natale, e
di militare i nostri studenti hanno ben poco, se si eccettuano certi eccentrici
pantaloni col cavallo basso. Pressoché nessuno imparerà a sparare con un fucile
o marcerà sudando sotto un elmetto; non saranno certo in molti a potersi cucire
gradi sulla divisa e forse solo uno sparuto numero di loro saluterà il proprio
superiore con un gesto marziale della mano, mettendosi sull’attenti.
Tante cose sono cambiate da quando c’eri tu,
sulla scena del mondo, caro Manfredo. Non mi è ancora ben chiaro quanto tu
sappia di ciò che, nel frattempo, è accaduto nella terra dei vivi, e cercherò dunque
di dosare con prudenza le notizie: in fondo, sono qui solo per chiederti come
stai, non certo per provocarti sconvolgimenti esistenziali.
L’esercito italiano, ad ogni modo, esiste
ancora e questo contribuirà a rassicurarti, ne sono certa. Anche l’Italia esiste
ancora, e con qualche (consistente!) pezzo in più rispetto a quando l’hai
lasciata. Quindi, innanzitutto: grazie. Grazie per aver dedicato il tuo tempo a
combattere perché questa nazione esistesse e perché Carpi ne facesse parte. Grazie
anche per aver immaginato un luogo come l’Accademia Militare: negli anni della
mia istruzione superiore, a Modena, le finestre del liceo affacciavano proprio su
quelle del Palazzo Ducale e, durante le faticose ore di latino, indirizzare ai
cadetti un saluto fugace o cuoricini disegnati su pezzetti di carta rappresentava
per noi uno dei diversivi più eccitanti. So che probabilmente non lo immaginavi
tra i benefici potenziali del tuo ambizioso progetto, ma questo è proprio ciò
che contraddistingue le Grandi Invenzioni dell’Umanità, i cui effetti spesso
travalicano – con autonoma genialità – le intenzioni dei loro ideatori.
Un’altra cosa che credo ti farà piacere sapere
è che nel nostro liceo – l’unico in Italia a portare il tuo nome, ci tengo a
sottolinearlo, e quindi, con un buon margine di probabilità, anche l’unico al
mondo e il solo nell’universo – molti studenti, oltre alla matematica, studiano
il francese e lo spagnolo: tu, che hai visto Francia e Spagna accogliere il tuo
esilio e contribuire non poco alla tua formazione (per non parlare dell’amore!),
non potrai che approvare questa scelta, con quel severo cipiglio che abbiamo
imparato a riconoscere dalle poche tue immagini che sono giunte fino a noi.
Occorre però precisare che si insegnano anche l’inglese e – siediti prima di
continuare a leggere – il tedesco. Devi capire che l’Austria da tempo non è più
nostra nemica e non è neppure più un impero, ma un semplice staterello un po’ schiacciato,
da quando – e lo preciso sapendo che fremerai di orgoglio – ha perso una guerra
grande e sanguinosa nella quale noi, cioè l’Italia, abbiamo incredibilmente
scelto di stare dalla parte vincente; oggi, addirittura, Italia e Austria
siedono fianco a fianco, insieme a tanti altri paesi, in un grande Parlamento
che si chiama Europa.
Tradimenti, ostilità, contestazioni, nemici e
divergenze politiche popolano ancora il mondo, quello con la M maiuscola e
anche il nostro piccolo universo scolastico. Nuovi Garibaldi e diversi Cavour
occupano i posti che contano, mentre la maggior parte di noi siede su sgabelli
in ultima o penultima fila, o nel banco che dà sulla finestra, con mano pronta ad
afferrare gli scampoli di felicità che la vita ci offre, e spesso in maniera
inattesa.
E tu? Quando sei stato davvero felice? Cronache
e storie che si trovano su internet –
un’immensa enciclopedia condivisa da tutti gli abitanti del mondo, probabilmente
la cosa che più ha rivoluzionato le nostre vite negli ultimi vent’anni – ci
parlano solo di battaglie vinte e discussioni ministeriali, ma io voglio credere
che, per te come per noi, i momenti più belli dell’esistenza siano stati –
anche, e soprattutto – tra le pieghe delle grandi date, nascosti in mezzo alle ricorrenze
più roboanti, ai margini delle vittorie e nei cantucci dei riconoscimenti.
Passeggiavi anche tu sotto i portici di piazza
dei Martiri (anzi no, piazza Maggiore ai tuoi tempi), nelle afose estati
emiliane, sentendoti piccolo e schiacciato di fronte a quell’infinito spiazzo
assolato, eppure fiero, da carpigiano, di farne parte? Capitava anche a te,
quando il sole scende e rade la campagna allungandosi come a volerne toccare le
punte, di camminare fuori dal centro abitato e di spingere quasi allo stesso
modo lo sguardo lontano, da tutte le parti, per godere di quella terra bassa,
uniforme, rassicurante e addomesticata, sempre amica a se stessa? Ti ritrovavi
forse, ogni tanto, durante le marce, ad ascoltare il ritmico rumore dei passi
altrui, indissolubilmente mescolato al tuo? Percepivi – come accade a volte,
giusto per un istante – in quel coro muto di sforzo comune un guizzo di energia
felice, per quegli io che con
naturale armonia sembravano diventare un noi?
È un mondo stravolto e bizzarro, caro Manfredo,
quello in cui oggi viviamo, così distante dai tuoi orizzonti che devo pesare ogni
parola prima di scriverla. Sono sillabe immateriali, volatili, irraggiungibili,
che stendo una a una su un supporto che non è più carta e con un tratto che non
sa più di grafite.
Per raggiungere la scuola, ogni mattina,
studenti e professori percorrono strade intitolate a eventi cruciali cui non
hai potuto assistere (al 24 maggio 1915, per esempio, avresti di certo partecipato
con entusiastico impegno) o a personaggi che hanno cambiato i contorni del
nostro pensiero in un modo che non potevi prevedere (Giovanni XXIII – un papa!
– oppure altri, dai nomi impronunciabili e in idiomi stranieri, come Einstein, Lenin,
Roosevelt); il nostro andirivieni quotidiano celebra martiri che per tua
fortuna non hai dovuto piangere: per chi viene da fuori, verso la campagna, c’è
via 29 maggio, che ricorda un terremoto violento e impietoso di soli sette anni
fa, mentre in città rimarresti forse perplesso di fronte a vie dedicate alla
sedicenne Anna Frank o a un magistrato della lontana Sicilia, che di cognome
faceva Falcone. Industrie, capannoni, parcheggi ed enormi ammassi di negozi
chiamati centri commerciali punteggiano oggi un panorama che stenteresti a
riconoscere.
Tutti i giorni, da settembre a giugno,
adolescenti tra i quattordici e i diciannove anni si alzano, sbadigliano,
bevono un caffè e si dirigono assonnati, percorrendo questa nuova Carpi, verso
una scuola statale e gratuita, dove non ci sono generali (o meglio, dove ce n’è
uno, sì, ma che porta i tacchi e ama dipingere i muri di giallo) né uniformi;
non ci sono reggimenti, armistizi, brigate. Tutti i giorni, da settembre a
giugno, piccole formiche dai vestiti variopinti varcano un cancello che reca il
tuo nome, Manfredo, per vivere cose che ti lascerebbero di sicuro a bocca
aperta: fotografie, disegni, giochi, canzoni, merende, risate. Eppure, caro
Manfredo, a loro modo, tutte queste strambe formichine fanno qualcosa che anche
tu, vicino e diverso, sapresti riconoscere: brandendo nella destra non fucili
ma penne, cellulari e mani altrui, studenti e professori, ogni giorno,
combattono una piccola ma energica battaglia. Per essere ogni giorno un po’ più
uniti, un po’ più liberi; ogni giorno un po’ migliori.
Tutto sommato, quindi, noi stiamo bene, qui al
Liceo Fanti, e speriamo che anche per te sia lo stesso.
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