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mercoledì 1 maggio 2019

Io accolgo te

Il 18 maggio duemiladiciannove molto probabilmente pioverà.
Tinni se lo ripete docile e convinta da ormai nove mesi e sta lentamente imparando ad abituarsi anche un po'.
Il 18 maggio duemiladiciannove molto probabilmente pioverà e tutte quelle goccioline di acqua accorreranno, molto anticipatamente invitate, per presenziare ad un evento piuttosto importante per la vita di Tinni e per quella di un'altra persona, e cioè il suo matrimonio.

Mi sembrava doveroso che - a circa nove anni di distanza dacché questo spazio virtuale ha visto luce e parole per la prima volta - anche le mura bianche ed arancioni del blog ricevessero impronta immateriale di tale evento: perché è proprio da qui (o da qui vicino), da queste formichine nere su candida schermata, che la bottiglia dell'amore che verrà stappata il 18 maggio duemiladiciannove - vino su acqua piovana, giusto per ribadire il concetto - si è riempita gorgogliando, soprattutto sul fondo iniziale.


Tinni, insomma, si sposa. Tinni ha scelto. Tinni dirà sì.

Ci sono pomeriggi particolarmente ingarbugliati - specie a cavallo della chiusa del quadrimestre - in cui quasi nessuna luce riesce a filtrare tra le intricate funi delle incombenze scolastiche più pesanti: verbali, prenotazioni, diagnosi, moduli, adozioni; ma, più di ogni altra fune: correzioni.
Chi abita oltre la soglia di una cattedra non lo sa, che le correzioni fanno male, spelano le mani, bruciano il cuore e appallottolano ogni buona volontà. Forse chi vive lontano da una scuola immagina un assetato furore punitivo; mia madre pensa ad un confortante abbraccio di massa; gli studenti probabilmente ipotizzano veloci scarabocchi su voti già decisi. Ma solo un insegnante sa. Solo un insegnante sa quanto dolore si accartocci nel leggere righe sempre sbilenche che mai riportano ciò che tu vorresti aver trasmesso. Quanto appassiscano in fretta, al suono delle correzioni, la gioia tintinnante di una lezione che ti pare riuscita, l'entusiasmo di uno sguardo che vola dal libro a te e poi di nuovo al libro, l'intelligenza di una domanda, l'affetto di un va bene. Tante volte si esce sconfitti dalle correzioni, e corretti a propria volta da milioni di la prossima volta lo dirò meglio, da domani mi metto a ritirare i quaderni, devo imparare a parlare più lenta, bisogna che cominci ad insegnare come prendere appunti, sono stata troppo buona e lassista. Un velo amaro copre così, ad ogni correzione, quelle ore pomeridiane così preziose per ricaricare energie e conoscenze, trasformando tutto in un boccone di fiele.
E arrivano amaramente le diciannove.
A volte è il brontolio della pancia che mi impone di mettere un punto, in rosso, a quel doloroso strazio, e allora all'impotenza didattica si sostituiscono in fretta quella culinaria, organizzativa, domestica: il frigo è ancora vuoto, si può preparare una pasta soltanto con le olive nere rimaste da ieri?
Altre volte i miei genitori scrivono per piatti accordi sull'indomani; o la lavastoviglie bippa, o il campanello suona (nuove offerte luce e gas), o ancora il Napoli fa goal e il palazzo rimbomba delle urla giù al primo piano.
In tutti questi casi mi strappo disgustata dall'ingombra scrivania per trascinarmi istupidita nell'altra stanza, attenta a non portare troppe scorie di là, a non contaminare l'altro tavolo, quello della nutrizione, a chiudere bene il tappo della biro e del rancore.
Tanti pomeriggi finiscono così, con la porta chiusa a fatica sulla scuola e l'anta del frigo aperta e perplessa su di una cena che fatica a realizzarsi.
Tanti pomeriggi ma non tutti.
Tanti pomeriggi si sono chiusi così, ma alcuni invece no e finalmente posso dipanare il motivo per cui sono arrivata a parlare di correzioni scolastiche in un post che avevo cominciato annunciando un matrimonio.
I pomeriggi che non si sono chiusi così, al margine di una pila di verifiche già soffertamente corrette, sono riusciti ad evitarlo perché alle diciannove e qualchecosa il display del cellulare si è illuminato e sopra ci ho letto il nome di lui.

Srotolare in parole ciò che succede in quelle telefonate è impresa quasi impossibile; solo una lunga metafora può riuscirci. E così, volando ancora una volta di palo in frasca, vi parlerò di piscina.
Nove anni fa, quando questo blog si apriva, Tinni cioè io aveva paura dell'acqua; cinque anni dopo le braccia di lui mimavano un gesto simmetrico e placido con il quale, a suo dire, avrei potuto sconfiggere la morsa dell'annegamento, da me considerato fino ad allora inevitabile. Fu così. Imparai a nuotare grazie a quel placido e simmetrico mimo e anche grazie ad un paio di altri trucchetti preziosi come quando ti senti stanca, butta su il culo (cit.), che ritengo ora giusto condividere grata con l'etere.
Tinni imparò a stare a galla - grazie al mimo - e poi a respirare a stile - grazie ad insegnanti testardi e pazienti, al fianco di un'amica, due sere a settimana - e infine pure a fare la virata - grazie (quasi) solo a se stessa, e oggi cerca di spazzare via impegni e stanchezze almeno dalle mattonelle di due ore, il venerdì, per concedersi il lusso di qualche vasca in piscina.
Fine dell'antefatto.
Quando il telefono suona, alle diciannove e qualchecosa, e tutto quello che Tinni vuole - fino all'istante prima di veder comparire quelle due sillabe sullo schermo blu - è soltanto chiudere occhi, penna, libro, giorno, vita di fronte all'amarezza che la assedia, quando il telefono suona e dall'altra parte c'è lui, Tinni per un attimo ritorna in piscina. Come quando si siede a bordo vasca e - mentre le natiche fanno ciao ciao alla colonia di funghi che probabilmente prolifera pacificamente lì sotto - la testa le martella incessante perché? chi me l'ha fatto fare, con 'sto freddo, di venire fin qua?
Come in piscina, è questione di secondi. Il nome che compare sul display è la mano invisibile che la spinge a buttarsi, anche oggi, anche con 'sto freddo, anche se avrei potuto andare in posta, finché era aperta. I brividi di gelo delle prime quattro bracciate sono la fatica di accettare un contatto umano dopo ore di smacchi rabbiosi, ma svaniscono prima di toccare l'altra sponda. E poi arriva l'acqua, quella vera: l'acqua che ti culla e accoglie diventando la forma più adatta, ogni istante, al tuo corpo che la fende, impacciato, scattoso e convulso.
Perché se chiamasse qualsiasi altra voce, alle diciannove e qualchecosa, non riuscirei a raccontare nulla: come spiegare all'amico d'infanzia che Manetti mi ha deluso, che forse Bertocchi ha copiato, che pensavo che almeno stavolta Battista avrebbe capito? Meglio sorvolare su di un generico sono stanca, ho corretto tutto il pomeriggio. Meglio andare alla posta, finché è aperta; meglio correre a casa e infilare la testa sotto la coperta del divano, per incamerare preziose energie.
E se chiamassero altri (dei colleghi?) e avessi la possibilità di balbettare qualche nome, qualche numero, qualche citazione dell'orrore, che cosa accadrebbe se non un semplice ma certo di conforto? Se andassi in palestra, se frequentassi un corso di aerobica, se pedalassi lungo una ciclabile, le molecole di vita intorno a me si armonizzerebbero - morbide e carezzevoli - come accade quando si nuota?
Le sue telefonate sono così: si plasmano al suono di un silenzio attento e cullano i miei rancori inframezzandoli - ogni tre o quattro bracciate, a seconda della stanchezza - con una boccata di domande mirate ed acute. E a fine allenamento, puntualmente, ritrovo una Tinni affamata - di cibo, di vita, di scuola, nonostante tutto - e una schiena non più dolorante.

Perché sposarsi, dunque? Perché dire sì?
Quelle telefonate acquatiche stanno per Tinni sulla cima assoluta della lista, quasi a pari merito col secondo posto, quello del mimo simmetrico che mi ha permesso di imparare a tenermi su.
Chi legge questo blog da lontano probabilmente non sarà là a tirare coriandoli o riso, il diciotto maggio duemiladiciannove, ma era bello che potesse almeno leggere, da lontano, questa speciale promessa, questa bizzarra dichiarazione.
E se, alla fine, dovesse piovere per davvero, vorrà dire che ci lasceremo cullare dalla forma dell'acqua e mimeremo insieme, ridacchiando, quell'antico gesto pacato, con la faccia rivolta all'insù.



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