Piange ciò che muta, ancheper farsi migliore. La lucedel futuro non cessa un solo istante
di ferirci
C'era una volta, in una galassia lontana nel tempo e un po' anche nello spazio, Tinni alle prime armi con le ripetizioni di latino (e non solo); e c'erano una volta, seduti al suo fianco a respirare la stessa aria densa di ablativi assoluti, una sfilza di adolescenti un po' brufolosi e brontoloni che diventavano, verbo dopo soggetto, un pezzettino di lei. E c'erano anche: una panda rossa e canterina che trasportava l'una dagli altri praticamente tutti i giorni; una casa dentro una chiesa; un taglio di capelli asimmetrico; un blog e poche altre cose che, con gli occhi di oggi, mi pare si possa dire che stavano costruendo silenziosamente le radici di un albero enorme e inaspettato.
C'era una volta tutto questo groviglio didattico ed esistenziale ma, soprattutto, vorrei (ri)parlarvi del fatto che c'era una volta un allievo un po' speciale.
M., il mio allievo cieco, che si era seduto accanto a quella Tinni sprovveduta per una decina di mesi - prima che il terremoto si portasse via le ultime due settimane di scuola, e di biennio (per lui) e di progetto pagato dal comune (per me).
M., il mio allievo che proprio con il latino non riusciva ad entrare in sintonia - forse peggio di chiunque altro in quegli anni di tinniche soddisfazioni mendicate e potenti - ma non perché non volesse, o perché fosse innamorato, o perché lui doveva fare il tecnico e la madre non lo aveva saputo capire; non perché la sua prof gli chiedesse troppi paradigmi a memoria; non per colpa del compagno di banco e neppure del gatto, morto ormai troppe volte per giustificare compiti mai svolti.
M. non poteva proprio, lui, entrare in sintonia con il latino. E lo capisco (lo vedo) solo adesso, che, dai rami più alti di quell'albero enorme e inaspettato, un po' mi crogiolo a guardare in basso e un po' accolgo al mio fianco un alunno nuovo e speciale che mi fa compagnia mentre - come accade ogni volta, antica o inedita che sia - reimparo da capo il latino insegnandolo, in un prodigioso gioco di specchi.
M. non poteva tradurre il latino, soprattutto quando si innalza, facendosi bello e aspro, perché - al buio dalla nascita - non poteva vederlo, ma solo toccarlo. M., che leggeva tutti i suoi libri con il dito indice destro, mentre sulla striscia metallica allegata al suo computer salivano e scendevano solerti pallini e, valle dopo montagna, a contatto con il suo polpastrello zelante le parole arrivavano fino alla cima di lui. Non poteva capirlo perché il latino di una sola cosa ha bisogno: e in tanti potrebbero chiosare di pazienza; di memoria; di esercizio; o anche di culo, più prosaicamente. Ma io invece credo che il latino abbia più che altro necessità vitale di uno sguardo lungo.
Uno sguardo che, appena entra tra quelle quattro pareti verbali, sappia abbracciare sorridendo, e poi correre lieve in fondo alla frase; ma che poi si volti indietro per non lasciare indietro nessuno, e dopo un po' che se ne sta lì, ad accarezzare mani e ginocchia, esca sul balcone per guardare ancora una volta dall'alto tutto il palazzo, e i suoi abitanti, e solo allora socchiudere gli occhi mormorando ci siamo.
Il latino ha bisogno di quello sguardo lì, per essere amato: ubiquo, vorace, alto, materno; uno sguardo che nessun polpastrello, seppur zelante, potrà mai restituire.
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