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mercoledì 9 luglio 2025

Non sono previste piogge.

Con estremo narcisismo, voglio vedere il mio passato nero su bianco e grazie a questo diventare ciò che non sono.
A. Ernaux

Non sono previste piogge sul territorio provinciale.

Così recitava zelante il meteo di ModenaToday, qualche pomeriggio fa, quando, in un improvviso quanto raro momento di scrupolo, Tinni controllava la pagina dedicata prima di lasciare le veneziane a spenzolare bonarie dal suo balcone.

Non passavano neanche dieci minuti, però, e tutto ad un tratto la visuale dal parabrezza della panda si tingeva di colore bianco, mentre intorno a lei, con traiettorie orizzontali, si apprezzavano in volo rami, acqua, ghiaccio, pigne e stracci strappati ai balconi.

La nostra protagonista ed il suo fedele mezzo di trasporto si trovavano ormai lontane dai prevedibili ripari delle ultime propaggini di città. Di proseguire, finché tutto quel bianco non avesse dato una tregua, non era certo il caso, ed allora le due amiche osservavano altre coppie di lunga data - conducenti al rientro da giornate stanche, leali scatolette a quattro ruote - toccare con mano lieve il pulsante delle quattro frecce ed accoccolarsi umili e raccolte sotto al cavalcavia della ciclabile.

Tinni e la panda si accodavano a quel gesto mansueto e dimesso, come ad attendere, stretti insieme, che il rimbrotto severo di una natura ferita passasse lasciandoci non troppo ammaccati. Le altre macchine, vedendole accostare, si tiravano un centimetro indietro, in avanti, di lato e silenziosamente offrivano il fianco alla muta e sottomessa condivisione del pericolo. La panda arrestava il respiro e l'abitacolo si riempiva così, con una forza ancora maggiore, della violenza ghiacciata di quel tempo impazzito. 


Tinni odia i temporali dacché ne ha memoria e ne prova una vischiosa e fottuta paura. La storia della gabbia di Faraday non le è di alcun aiuto. Le vengono sempre gli attacchi di panico e alla fine, scivolandosene via insieme agli ultimi tuoni lontani, le lasciano addosso un senso di vergogna e spossatezza.

Si preparava pertanto, anche lì - mezza fuori e mezza dentro il cavalcavia della ciclabile - , serrando i pugni e anche un po' la pelle, all'arrivo della familiare ondata di paura. 

Ma la paura, semplicemente, non arrivava.

Gli occhi, quelli sì, atterrivano mentre grandine e cambiamento climatico si rovesciavano addosso alla carrozzeria tra una parolaccia e l'altra di una delle poche canzoni italiane che il suo spotify conoscesse, ma altro no: nessun getto potente di terrore penetrava a scuotere quelle quattro mura di alluminio e carne; ed era, probabilmente, la prima volta in tutta la sua vita. 

Zero; nulla; vuoto. Niente brividi, niente sudore, niente battiti accelerati. Nessuna visione di morte. Nessuna scena iniziale de Il mago di Oz. Nessun bisogno impellente di chiamare numeri rassicuranti per sentirsi riproporre un confortante pacchettino di banalità. E vorrei che - se pur dietro alle sillabe narcise ed un po' enfatiche a cui queste pagine sono ormai abituate - percepiste la nuda e potente schiettezza di questo incredibile non-evento.

Che cosa accadeva? Perché all'improvviso quella donna - che ormai nessuno oggi, nemmeno in un estremo attacco di galanteria, può più impedirsi di chiamare signora - si guardava allo specchietto retrovisore non riconoscendo più una parte così appiccicata della sua consueta pelle? Cos'era successo perché quel pezzo di sé cadesse con un tonfo sordo nella discarica dell'indifferenziato non più?

Occorre - forse - guardarle indietro, per provare a capire, a spiegare?


Tinni ha trascorso stretta nella solita gabbia di incombenze estive e materne tutta la prima parte di quella giornata di svolta. Svegliata dagli irriducibili ritmi altrui (il mio orologio scrive che sono le o-t-t-o: quindi bisogna alzarsi, dai), ha costruito colazioni improbabili sul funambolico filo del non ho fame, architettato occupazioni creative, contattato senza risultato manciate di madri scolastiche (siamo al mare fino a fine agosto, ma vediamoci appena rientriamo, dai), rinunciato a varcare la soglia salvifica della porta (no: non mi va di uscire, stiamo qui a giocare, dai) consolato sconfitte, incoraggiato trionfi, colorato una mezza dozzina di riquadri di pimpa (ancora uno rosa, dai), inventato pranzi e pungolato pisolini che apparivano come miraggi. 

Poi, piena di un'urgenza dolorosa ed esausta, di fronte all'ultimo dai, anche se solo di un millimetro più lagnoso dei precedenti, ha sgonfiato ad un tratto tutta quella bolla di maternità performativa ed è, semplicemente, scoppiata. Ha pianto e ha urlato. Di nuovo. Come tutti gli altri giorni di incombenze estive e materne. Come ogni volta che si trova a passare più di quattro ore consecutive con quello che la natura classifica ostinatamente come amore incondizionato e che lei, invece, sente - specie d'estate, specie intorno alle cinque di un pomeriggio ancora tutto da intrecciare - come un inequivocabile ed inflessibile carceriere.

Quanto può fare schifo - in una scala paramedica che comprende i ragni e il nome di una malattia incurabile sopra allo schermo del proprio fascicolo sanitario - sentire che ti fa schifo fare quello per cui ogni molecola del tuo essere più intimo sembra essere stata progettata?

E allora Tinni si è stufata: di fare schifo e di sentirsi uno schifo; e lo ha fatto un millimetro di più di tutte le altre volte precedenti. 

Tutti fuori, basta - ha intimato con una voce che le usciva da chissà dove - Via di qui! 

Voleva che, per una volta al mondo, le pareti vuote del suo involucro esistenziale rimbombassero come quelle di una vecchia casa a fine trasloco: senza epiteti, senza dai, senza 9 luglio. Una stanza desolata e basta. Che non fosse riempita più. 

Un male cane, togliersi tutti quegli strati di pelle. Una cosa assurda e contro natura. Pensi per mesi interi che spogliarsi da ogni idea di te sarà meglio di una doccia fresca ma da quel rubinetto esce un liquido che ustiona e corrode. 

Ma ormai la scopa era entrata in funzione, furiosamente: nessuno veniva risparmiato. Nemmeno i video strappacuore in cui loro due insieme appendevano palline all'albero di Natale con il sottofondo di Čajkovskij. 

Sarà stato in quel momento - mi pare ormai l'unica spiegazione possibile - che la fottutissima fobia dei temporali avrà messo incautamente il naso fuori dal suo eterno nascondiglio (forse uno starnuto per la troppa polvere) e la ramazza dell'anima, individuandola, l'avrà accompagnata senza tanti fronzoli all'uscita di emergenza più vicina? E lei, dall'alto della sua immemorabile presenza ai margini di quell'ecosistema, avrà tentato di giustificarsi? Avrà provato ad imporsi attaccandosi al ritornello del senza di me metterebbe in pericolo se stessa e gli altri? Ma gli ordini di sbaraccamento, questa volta, erano stati impartiti con una severità dolorosa che non lasciava scampo. E la fobia aveva starnutito una volta di troppo.

Poche ore dopo, quando suonava il campanello per la sua melodrammatica entrata in scena, sappiamo tutti com'è andata a finire.

Quanto disgusto rabbioso per ciò che si è diventati occorre accumulare per cancellare paure ataviche come tuoni, grandine, vento o, a pochi metri da noi, il rifiuto di rispondere alle domande dell'esame orale di maturità?


Dal giorno delle previsioni meteo scarsamente attendibili è passata ormai quasi una settimana. Di temporali ne sono arrivati almeno un altro paio e la prova del nove lo ha sancito in via definitiva: Tinni non se la fa più sotto quando scorge i primi lampi. Il suo retrobottega ci ha messo poche ore per riempirsi di nuovo di forme - materne e non solo -, ma quel singolo brandello di carne sgomenta è scomparso. Forse per sempre.


(Così scomparso che, a pochi giorni di distanza, per allenare una strafottenza di cui non si pensava capace, sotto l'ennesima bufera Tinni pedalava così spavalda e veloce da scivolare, e poi cadere, e sbattere la testa sul marciapiede finendo dritta al pronto soccorso: ma questa, miei cari lettori (?), è un'altra storia...)


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