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sabato 23 febbraio 2019

L'incrocio che sognava di essere una rotatoria

Succede, di solito, il sabato.

Ma soltanto in certi sabati più assonnati del solito, a dire il vero.

Il sabato Tinni esce all'una da scuola e, se per l'appunto si tratta di uno di quei sabati assonnati al seguito di una lunga serata che ha sconfinato scavallando il valico di giornata, è possibile che Tinni, verso le tredici e trenta, si trovi a passare da lì.

La prima volta l'ha trattata a tutti gli effetti come tale: ha rallentato, ha scalato la marcia, ha sbirciato a sinistra, e solo quando era già lì lì per fermarsi e dare la precedenza, si è accorta che quella, no, non era affatto una rotatoria, ma un semplice incrocio con spartitraffico centrale.

La seconda e la terza volta ha inciampato nello stesso errore, complice la nebbiolina soffusa lasciata nel suo cervello dalla serata appena trascorsa, ma se n'è accorta in tempo prima che gli impazienti veicoli delle retrovie dovessero riportarla all'ordine con un feroce colpo di clacson.

Alla quarta volta, però, Tinni ha dovuto ammettere l'evidenza: quell'incrocio - ogni volta, ogni sabato, ogni tredici e trenta - continuava ad ingannare le apparenze e a mostrarsi, fin dal primo sguardo lontano, come quello che non era; quell'incrocio continuava imperterrito a fare finta di di essere una rotatoria.

La posizione di certi cartelli - sì, forse - , il rapporto tondeggiante tra i due rami di strade incrociate - anche quello, può essere - , la particolare luce del sole delle tredici e trenta, impietosamente pulviscolare - chi può negarlo? Forse proprio la concomitanza di tutti questi dettagli fa sì che agli occhi di Tinni - mentre sfreccia stanca verso la stazione e verso un abbraccio - quel reticolo di strati di cemento si presenti sotto le mentite spoglie di una rotonda.

Ma se avete imparato a leggere bene tra le righe di questo spazio, anche se più rade, anche se più silenti, avrete anche già compreso che non è nessuno di questi dettagli il vero responsabile del fraintendimento e non sono nemmeno tutti i dettagli messi insieme.

Quell'incrocio è fatto così: lui sogna proprio di essere una rotatoria.

Non da sempre, intendiamoci.
Appena costruito si beava del suo statuto rettangolare e si diceva che quelle due braccia perpendicolari avrebbero abbracciato con successo automobili bisognose e cullato maternamente motorini preoccupati. Da giovane pensava che avrebbe cambiato il mondo, o perlomeno che lo avrebbe lasciato un po' migliore di così. Quanti incidenti evitati? Quante carrozzine in attraversamento tutelate da quelle fette bianche in parallelo, rigidamente dipinte sopra il suo ventre? Quante sane attese del proprio turno, in fila, uno dietro all'altro, mentre il suo asfalto scaldava e rincuorava pneumatici affranti? La regolarità razionale del suo funzionamento (ne era certo) apportava al traffico di quel quartiere di Modena - un agglomerato ancora informe di capannoni e caseggiati di edilizia popolare - scatti necessari e salutari di ordine e rigore.

Poi però.
Poi, però, arrivarono in città le prime rotonde. Caotiche, grasse, strabordanti, irregolari. Nessuno credeva che avrebbero fatto scuola: solo un pugno di cocciuti ingegneri - e un solerte assistente tecnico ai cantieri, molto caro a chi scrive - si ostinavano a costruirne qua e là dopo averle scoperte visitando i paesi del Nord.
Piano piano, cerchio dopo cerchio, curva su curva, la notizia delle nuove rotatorie arrivò fino al nostro incrocio di buona volontà.
Come riusciranno a domare il traffico senza dei rigidi turni di precedenza? Si chiedeva turbato tra una riga e l'altra. Come è possibile che nessuna strada ceda perentoriamente il passo all'altra, ma un po' tutte a ciascuna? Davvero da questa anarchia controllata di flussi che guardano solo da una parte può derivare qualcosa di buono per l'uomo? Davvero un cerchio può essere più ordinato di un quadrato?

Risultati immagini per forme geometriche cerchio quadrato
Queste domande metterebbero in crisi perfino una risoltissima autostrada: immaginiamoci quindi che effetto produssero sulla compunta e volenterosa indole del nostro incrocio modenese.
Impegnarsi ancor più rigidamente per battere la concorrenza? Inoltrare apposita domanda al Comune per essere riconvertito? Se la sentiva (alla sua età, poi!) di perdere ogni abitudine lungamente coltivata - le carezze alle ruote in attesa, le pacche di incoraggiamento ad ogni attraversamento titubante, la velocità delle auto sulla via maestra - per vedersi snaturato nei panni di qualcosa che ancora faticava a capire?
L'incrocio di pochi anni prima sarebbe rabbrividito al solo pensiero: la lunga strada verso la razionalità e verso l'illuminismo stradale appariva così spianata di fronte a lui!
Il nostro protagonista finì poco a poco per distrarsi colle sue fantasticherie e perdere mordente. Il suo asfalto non teneva più bene la presa sulle frenate delle ruote di ultima generazione. Il cartello rosso dello stop, curvato da un incidente notturno, non era stato più raddrizzato. Gli ingegneri del Comune - i figli ormai dei primi pionieri delle rotatorie - erano corsi ai ripari installando un innocuo spartitraffico, che si limitava ad osservare spaesato dal basso l'incrocio perso ormai nei suoi divoranti dubbi esistenziali.
Le rotatorie, nel frattempo, erano diventate le regine incontrastate degli snodi più essenziali della città. Solo le periferie - come era rimasta (al di là di ogni promessa elettorale) la zona di capannoni e caseggiati popolari a pochi passi dal retro della stazione ferroviaria - potevano permettersi di tenere in vita i sonnolenti incroci di un tempo. La maggior parte di essi, che non aveva mai brillato per velleità idealistiche, si arrabattava come aveva sempre fatto e tirava un sospiro di sollievo di fronte alla diminuzione dei mezzi in circolazione, deviati ormai sulle grandi arterie. Nessuno di loro aveva mai nutrito una così solida passione per il proprio lavoro, e così ora ciascuno di essi scivolava placido verso pensione e dismissione con la stessa apparente apatia dei giorni migliori.

Il nostro incrocio no. Il nostro incrocio continuava ad arrovellarsi e a sognare di vivere una vita non sua. A immaginare di non essere mai nato incrocio. A creare scenari di improbabili colpi di scena.
- Figlio di una rotatoria? Davvero? Oh, ecco che così tutto avrebbe un senso! -
Il nostro incrocio sognava di essere una rotatoria - pur sapendo ormai di essere condannato a morire incrocio - e lo faceva così forte che, alle volte (alle tredici e trenta, in certi sabati particolarmente sonnolenti), un po' una rotatoria lo sembrava anche, e specie agli occhi così premurosi di Tinni, che riassapora questa storia e ci sente dentro un po' il gusto della sua.

E allora cosa dire a questo incrocio deluso dalle luminose promesse di geometria ed immerso oramai nell'inestricabile rete dei suoi pensieri aggrovigliati? Che è comunque meglio morire incrocio? Che ciò che si è nati non si può tradire? Che le persiane della pazza incoscienza devono essere ben assicurate dall'interno in modo che, proprio ora che la vecchiaia fa capolino, la stanza resti al caldo e al buono?
O gli diremo invece che anche a fine corsa si può stravolgere tutto, ingoiare ciò con cui mai ci si sarebbe nutriti, chiudere gli occhi e affidarsi a meccanismi che, fino a poco tempo fa, ci avrebbero gettato nel più disperato terrore?

Io non gli dirò nessuna delle due cose, quando passerò di lì il prossimo sabato assonnato e ancora una volta, sovrappensiero, mi sbaglierò e frenerò credendolo una rotatoria: anzi gli dirò che, in fondo, a me piace così.
Così pieno di dubbi, così tormentato dal desiderio di essere qualcosa che al contempo gli fa male, così irrisolto: così lui. Così incrocio e anche così rotatoria.
E gli dirò anche - sussurrandolo piano a lui e a me che riparto dopo quell'attimo di illusione - che non c'è riuscita più grande che ammettere di essere riusciti soltanto a metà.







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