Ultimamente si è fatto un gran parlare di Emilia-Romagna e ne sono scaturite diverse cose belle, in quell'universo in recente rinascita che è la blogosfera. Ci ho partecipato anche io, prima da ospite e poi (con la stessa storia), a casa mia, cioè qui. Ché anche se la stanza è disabitata da tanto, non per questo devo smettere di lavare le tendine alle finestre.
Certe cose è la Natura
ad infilartele in un cassettino, sotto i fazzoletti col monogramma, e forse ci
metti un po’ a capire che sono tue, proprio tue, e che non tutti gli altri le
hanno ricevute uguali.
Con la patente appena
firmata in una tasca e un sorriso indelebile spennellato sul volto, non ho mai
avuto paura a ripartire in salita, dopo un incrocio o un semaforo; mi sembrava
che il freno a mano fosse sempre stato lì, come un rassicurante zio sul divano
la domenica pomeriggio, e sapevo che, a tenergli la mano (anche solo un accenno
di tocco, ché lo zio non è mai stato un tipo da effusioni manifeste), qualunque
insormontabile inghippo avrebbe assunto in pochi istanti le proporzioni di un
lievissimo, impercettibile sobbalzo.
I miei compagni di
classe cittadini cambiavano con molta più agilità le corsie della tangenziale;
forzavano gli attraversamenti a sinistra, parcheggiavano a esse in due mosse, partivano rombando alla prima sfumatura di
verde.
Poi però avevano paura
delle partenze in salita.
Ed è stato lì, a
diciotto anni, che improvvisamente ho capito – io di solito sempre così fifona,
sempre così abituata a coltivare le paure più sceme – che avevo una cosa tutta
speciale nascosta nel cassettino, e non per merito mio. Non avevo paura. Sapevo
fare con scioltezza una manovra che agli altri incuteva timore. Ed era la
Natura che me l’aveva messa lì, questa cosa, sotto forma di pendenze e tettonica.
E quando dico Natura,
intendo proprio la natura della provincia
di Modena, e di quel lembo di provincia in cui ero nata e cresciuta, cioè –
come diciamo noi modenesi – l’Alta.
Tutti i modenesi sono
nati o nella Bassa o nell’Alta; e chi è cresciuto a Modena città resta solo
apparentemente fuori dai giochi: avrà almeno un nonno o un prozio da
incasellare in una delle due categorie.
L’Alta comincia un
centimetro a sud del territorio
comunale del capoluogo, e la Bassa qualche millimetro verso nord. Siamo fatti così, qui a Modena:
ci piacciono le cose progettate bene, le righe precise, gli orari spaccati; e
poi però abbiamo l’Alta in basso e la Bassa in alto. Qualcuno dà la colpa
all’Appennino, dice che si è messo dalla parte sbagliata della carta. Secondo
me lo ha fatto apposta – e bene – , altrimenti saremmo stati tutti troppo
noiosi e pertinenti.
Io sono nata in
un’Alta decisamente temperata – le prime colline, a 25 chilometri appena dalla
civilissima capitale – ma le partenze in salita, per andare “su in castello”,
hanno fatto sempre parte del mio orizzonte; fin da quando, in castello, ci
andavo a piedi alle elementari, e mi sembrava normale sporgermi dalla piazza
della Dama, dopo aver salito senza fiato i novantanove scalini, e vedere di
sotto i vigneti rincorrersi a perdifiato.
L’Alta ha infilato nel
mio cassettino la dimestichezza con le partenze in salita, con le ciliegie, con
la neve che viene sempre di più a casa nostra che altrove (che a scuola, che al
lavoro da mio padre, che a casa dei compagni di classe); mi ha insegnato, con
dolcezza e pazienza, il significato del termine pittoresco, e anche quello delle parole noia e isolamento. L’Alta
ha guidato i miei piedi la prima volta che sono salita su una balla di fieno,
ha tagliato l’aria davanti a me quando sudavo e arrancavo per raggiungere gli
amici a Vignola, in bicicletta, per soli ed interminabili sette chilometri di
saliscendi stradali, mi ha dato da bere l’acqua fresca di Pavullo, nelle gite
fuori porta del finesettimana. La Bassa mi appariva come una landa lontanissima
e impenetrabile: un po’ per la nebbia, che mi dicevano regnasse sovrana, e un
po’ per l’effettiva distanza chilometrica. Questo lo sanno non solo i modenesi,
ma anche tutti gli insegnanti precari assegnati, per scelta o giocoforza, alla
provincia suddetta: Pievepelago e Finale sono davvero parte dello stesso
universo? Il c.a.p. farebbe pensare di sì, ma google maps segnala comunque all’inesperto
visitatore che distano tra loro circa centodieci chilometri.
Non ero mai stata a
Carpi, Mirandola restava per me un enigma, Novi di Modena – per citare un luogo
caro a chi legge – assumeva nella mia mente i contorni di un buco
spazio-temporale. Le voci che narravano di queste terre esprimevano alle mie
orecchie di bambina suggestionabile un sottotono di grigia disperazione. La
Bassa? Per carità! Fino là? Starai scherzando! Chi può voler vivere in un luogo
tanto remoto, tanto diverso dai contorni ondulati che avvolgevano gli anni
belli della mia vita?
Così ho trascorso una
buona fetta della mia vita; così vivono gli abitanti dell’Alta, quelli che poi
si conoscono, si fidanzano e si sposano con altre persone che sanno fare le
partenze in salita.
Così ho vissuto anche
io, fino al settembre dell’anno 2018.
Lì, all’improvviso,
quel Dio-Appennino che sa tanto bene come sparigliare le carte e mettere tutti
a testa in giù, mi ha regalato il posto fisso a scuola nel più grande liceo
della provincia; ma nella parte della provincia “sbagliata”. Sono finita di
ruolo a Carpi.
Addio sole, addio
neve, arrivederci ciliegi in fiore – mi dicevo compulsando il sito noipa.it per consolarmi almeno con
quella rigonfia cifra a fine mese. Ti saluto pittoresco. Chissà che faccia avranno – mi chiedevo – questi
lontani cugini: saranno grigi e composti, un po’ segnati dalle sfighe del
terremoto e dell’alluvione, ma comunque efficientemente modenesi? Riuscirò a
cogliere, sul fondo dei loro occhi, il triste stagno della pianura piatta e
penosa? Mi perderò per quelle strade tutte uguali, senza striscia nel mezzo?

Ebbene, la provincia
di Modena è stata capace di stupirmi ancora una volta, e forse più che mai: mi
ha mostrato che sul fondo di quel cassettino c’era ancora qualcosa che non
avevo notato, ancora qualcosa di mio ma non solo mio. Qualcosa di nostro, di tutti noi nati in quei
centodieci chilometri di striscia tra il Secchia e il Panaro. Qualcosa di
indefinibile, a cui non so dare etichetta, come sono tutte le appartenenze che
non si fanno muro. Come i sapori buoni ed antichi, come le ciliegie e il
lambrusco.
Nella Bassa mi sono
sentita, comunque, a casa.
E oggi, quando devo
fare metano, la mattina, e invece della nazionale per Carpi prendo le strade
basse che passano per Albareto, mi ritrovo spesso ad attendere al semaforo
rosso del ponte dell’Uccellino: un vecchio ponte di barche che nella sua
bizzarra ma dignitosa precarietà traghetta quotidianamente fiumi di macchine al
di là del Secchia. La strada per il ponte è in salita leggera, ma vista la
lunga coda non voglio rischiare: accarezzo il freno a mano e parto comunque
così, strizzando l’occhio a questa pendenza così sorella di quelle su cui sono
cresciuta.
Quindi adesso sei ufficialmente in NEW WAVE :)
RispondiEliminaDi quante cose devo esserti ancora debitrice?!
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