MOLTEPLICI INIZI.


A proposito di:

interculturalità - scuola - letture - frivolezze - risparmio - poesia - creatività - viaggi - pande - giardinaggio ... e bizzarrie varie.

venerdì 20 giugno 2025

Gonne (dialoghi tra)

Il giorno della prima prova dell'esame di maturità del 2003 Tinni indossava una gonna lunga fino alle caviglie, rosa con i fiorellini azzurri, di tessuto leggero ed increspato. Si trattava di uno dei suoi primi e goffi tentativi di uscire dal coro della moda modenese e di costruirsi - bottone su calzino - un'anagrafe vestiaria che fosse un po' più soltanto sua (e della sua paziente madre, che l'aveva confezionata a partire da uno scampolo di anonima stoffa comprata al metro). 

Che cosa indossasse, invece, il giorno della prima prova dell'esame di maturità del 2017, e del 2018, e del 2019, e poi di nuovo lo stesso giorno del 2022, del 2023 e del 2024, Tinni non se lo ricorda.

Ma sa, con un certo grado di convinzione, che anche il giorno della prima prova dell'esame di maturità del 2025 ha indossato una gonna leggera e lunga fino alle caviglie (non rosa, però: verde).

Uno dei pochi poteri magici conferiti dal fatto di poter svolgere un numero infinito di volte l'esame di maturità - oltre al quarto d'ora di notorietà su whatsapp, nel pomeriggio del tema, quando tutti, anche i più lontani conoscenti, ti scrivono per chiederti un parere sulle tracce uscite - è che, ogni anno, torno ad intravedere quella gonna rosa a fiorellini azzurri: la vedo svolazzare per qualche attimo tra un banco e l'altro, quando un alunno allontana la sedia dal posto per sfruttare la sua manciata di attimi di bagno.

Ma è questione di secondi: e anche se mi alzo dalla postazione imponente dei docenti e percorro quei corridoi di tensione facendomi largo tra tremori e raccoglimento; anche se approfitto di un posto lasciato vuoto dal primo che ha ceduto alla stanchezza ed è uscito poco dopo la terza ora; anche se mi siedo in mezzo a quei volti sudati e provo a respirare la loro stessa aria di ora o mai più, la gonna rosa increspata a fiorellini non la vedo più.

Mi resta la gonna verde di raso, comprata l'anno scorso ai saldi: indubbiamente più elegante, valorizza in modo molto più efficace la mia silhouette, al tatto è più confortevole e nessun armocromista al mondo potrebbe preferirla a quella rosa confetto. 

Però.

Quando sei adolescente fin nel midollo, e la sofferenza angosciosa del domani ti si avviluppa addosso come un sacco del pattume, non sussurra anche, nello stesso momento, al tuo cuore che tutto appare ancora possibile?

E' forse da pazzi invidiare quelle mani nervose e pallide che stringono le penne fino a fondere sudore e inchiostro - e il tutto lascia una scia di fatica impotente sul foglio ormai stremato? Quelle stesse mani candide, senza bruciature del tempo, che ancora non sanno di chi stringeranno i palmi tra loro e che quindi possono rispondere, chiedendoselo, "chiunque"?


La gonna rosa a fiorellini azzurri era nel mio armadio anche nei mesi in cui, per le prime trepidanti volte, prendevo in mano un volante e provavo a guidare. All'epoca avrei dato qualsiasi cosa per essere sola, dentro quell'abitacolo; senza mio padre urlante e nervoso, senza istruttore, senza esaminatore: solo io e la mia borsa, appoggiata come i grandi sul sedile di destra. E poi, da un giorno all'altro, era stato così. Tinni guidava con la sola compagnia della borsa di tela dell'equo e solidale e improvvisamente si insinuava - tra le pieghe increspate della sua gonna rosa - il desiderio che, invece, sul sedile del passeggero ci fosse Qualcuno. Passavano i mesi, placidi e studiosi, e tutto ad un tratto Tinni si ritrovava coi palmi sudati e la tremarella a sorpassare due camion di fila sull'autostrada del Brennero, mentre al suo fianco - proprio lì dove lei lo desiderava - sedeva Qualcuno che le urlava di non rallentare, MAI!, e che al contempo si rifiutava di prendere il suo posto perché questa è la vera parità dei sessi. E allora, di nuovo, quel desiderio lancinante, quasi di aria: perché non posso esserci io, ogni tanto, seduta di fianco al volante, mentre Qualcuno guida sereno? Di mesi questa volta ne passavano un po' di più, ma anche in quel caso, dopo un'attesa come di uva matura, eccolo lì: ecco Qualcuno che guidava sempre lui, in autostrada, senza velleità femministe né rimostranze smozzicate e però Tinni a quel punto volgeva lo sguardo all'indietro e si chiedeva, come forse avrete già capito, ma non sarebbe più bello starsene in tre, qui dentro alla panda rossa? E la panda, paziente e puntuale, si prestava ad accogliere sul sedile posteriore un seggiolino per neonati dal montaggio quasi paragonabile a quello della Tour Eiffel, e si immaginava così che, finalmente, avrebbe visto la sua padrona guidare contenta. Macchè. Il neonato in questione rendeva quei viaggi un'esperienza molto simile all'inferno: ogni decina di chilometri, all'inizio, occorreva accostare e allattarlo. E poi, quando le parole prendevano il posto dei pianti, Tinni non poteva più nemmeno ascoltare la sua musica in pace: a regnare indisturbati erano ormai mp3 di fiabe, domande a raffica, rimostranze e richieste incessanti di attenzione. Quanto avrei dato, allora, per essere sola, dentro quell'abitacolo: senza figlio, senza marito, senza ruoli, senza liste né scadenze. Solo io e la mia borsa - di marca francese - appoggiata come gli adolescenti sul sedile di destra.

Come si fa ad accontentarsi, a capire che ciò che abbiamo è abbastanza per la felicità? - scriveva un mio alunno su una strisciolina di carta, all'inizio di questo anno scolastico, poco dopo che avevo chiesto loro di domandare alla Luna - la stessa luna muta del pastore errante dell'Asia - ciò che di più importante avevano nel cuore e poco prima che infilassi tutti quei foglietti in una vecchia scatola da scarpe, sigillandola e dimenticandomela fino a qualche giorno fa. 

La gonna verde di raso ha reso un po' più di giustizia alle mie gambe tozze, questo forse sì, ma non mi ha trasformato in Luna, né tantomeno in divinità. Però la settimana scorsa guidavo all'alba verso il mare e avevo deciso - contrariamente all'ultimo desiderio espresso tra quelle pareti - di portarmi dietro anche Guido, per la prima volta, all'interno di un mio piccolo rito tanto prezioso quanto fugace. Ero in autostrada con i palmi sudati e la tremarella, e per evitare il consueto inferno prima di partire mi ero fortemente raccomandata silenzio e obbedienza (signorsì signore - aveva risposto lui come fa quando capisce che la posta in gioco è più alta del normale). Guidavo quindi la panda grigia zigzagando tra camion e visioni di morte spiaccicata e all'improvviso mi rendevo conto che, a dispetto del passeggero sul retro, un'irreale quiete regnava dentro quel piccolo mondo di sedili. Sbirciavo allora nello specchietto e intercettavo il volto di mio figlio: prima concentrato sul panorama e poi, in un istante, aperto in un sorriso intenso e raggiante.

Sei felice, Bogigio? Chiedevo in qualche anfratto di spazio tra un sorpasso e una coda.

Sì, perché mi è venuta in mente la scena di Toy Story quando il dinosauro gioca al computer: mi fa molto ridere.

Ecco allora cosa risponderebbe la gonna di raso verde, oggi, alla domanda muta ed eterna che di certo, potendola formulare, le farebbe la gonna rosa a fiorellini azzurri, sorella vicina e diversa delle decine di pantaloni che le siedono accanto, anno dopo anno, su quei banchi sdruciti. 

Non sempre avrai Qualcuno - al volante, sul sedile del passeggero, su quello posteriore o in tutti gli spazi che la tua panda potrà accogliere senza violare il proprio tagliando; ma basteranno quattro pareti aperte, il panorama che scorre, un paio di occhi per potertici perdere dentro e, soprattutto, una scena schietta e pura, nella sua semplicità, pronta per essere estratta dal mazzo dei ricordi. Quella sarà, allora e per sempre, la tua felicità.



giovedì 12 giugno 2025

Dove mai si va a ficcare il diritto. (cit)

Era il settembre 2019 e no, Tinni ancora non aveva ricevuto in affidamento alcuna corazza d'ordinanza: la sua pelle, benché abbrustolita dal sole del viaggio di nozze, era dunque piuttosto vulnerabile alle ferite e ai contraccolpi dell'esistenza.

Era il settembre del 2019 e poco tempo prima di allora diverse misurazioni le avevano garantito che al suo interno stava prendendo forma una nuova vita. Nessuna misurazione, però, e nessuna persona esperta dei fatti aveva potuto o saputo avvisare quell'euforica ed inconsapevole portatrice di vita che le cose, in quel campo, non sempre funzionano come durante i test del tipo di scuola a cui lei era stata abituata.

Era il settembre del 2019, quindi, e fino a pochi giorni prima Tinni era convinta di essere incinta; quella mattina, invece - di colpo, come solo le notizie raccapriccianti sanno arrivare - a Tinni era stato detto che, forse, semplicemente, non lo era più.

Come si trascorrono ventiquattro ore di attesa nelle quali il tuo corpo decide - microgrammo ormonale dopo microgrammo ormonale - se ha cambiato idea e preferisce spaccare in mille pezzi i piani che il suo padrone ha organizzato con la sola collaborazione del proprio cervello?

Nel caso di Tinni, si telefona ad S. e le si chiede di portarla con sé ovunque abbia programmato di andare. Ed S., che di figli ne ha due e, insieme ad essi, una serie di eventi pratico-organizzativi a cui presiedere, risponde al cellulare dopo soli due squilli e le garantisce che l'aspetta di lì a dieci minuti.

Cominciava così uno dei pomeriggi più amari, fragili e vischiosi della sua recente esperienza di vita. Tinni barcollava come colpita da un pugno sleale reggendosi terrea al braccio di S., che se la portava dietro implacabile al parco, alla posta, in rosticceria e, alla fine, nel supermercato dietro casa, per comprare un paio di quelle ultime cose che mancano sempre. 

S. e Tinni, seguite a ruota da Viola - sei anni - e Gioele - tre - percorrevano quindi alcune corsie e un paio di banchi frigo per poi approdare alla cassa; e mentre la nostra protagonista sentiva letteralmente scivolare fuori da sé una vita densa e collosa di sogni, S. aveva detto alla cassiera: scusami, sai, ma i miei figli hanno fatto un po' di casino. Le merci, in effetti, non erano più molto in ordine lungo il loro nastro trasportatore, e forse qualche pacchetto di patatine era stato aperto almeno parzialmente, ma a centrarmi come uno schiaffo fu quell'aggettivo possessivo che forse S. aveva usato diverse altre volte prima di allora ma al quale non avevo mai attribuito la stessa dolorosa e straziante importanza. 

I miei figli. I suoi. Quelli che lei aveva saputo accogliere e coltivare e lentamente plasmare nel suo grembo felice e che io, invece, stavo lasciando sgusciare via, senza poter opporre alcuna resistenza.

Trasudava invidia, oltre che sudore, il mio braccio letteralmente avvinghiato al suo mentre il sole del settembre 2019 ci accoglieva di nuovo in tutta la sua tempra fuori dalle porte scorrevoli del supermercato: invidia, sudore ma anche struggente bisogno che lei restasse lì, senza essere altro che S., la mia amica S., con due figli e due borse della spesa, a reggermi e a fare finta che il giorno dopo sarebbe stato uguale a tutti i giorni precedenti.


Ed improvvisamente era già l'ottobre, e il novembre, e poi ancora il dicembre dell'anno successivo e Tinni, alla fine, una vita l'aveva davvero creata: non quella del settembre 2019, non quella del supermercato con S., non quella su cui le chimere adolescenziali l'avevano indotta a fantasticare. Rimanere incinta per davvero era stato qualcosa di molto più simile ai brandelli di stanchezza vittoriosa dell'ultimo giorno di una guerra civile. Però era successo: Tinni aveva un figlio suo.

Però suo figlio non dormiva: quasi mai più di due ore consecutive. Tinni assisteva, così, di nuovo impotente, allo sgretolarsi dei suoi ritmi circadiani e delle sue scolastiche certezze e, per di più, si confrontava ancora una volta con l'invidia. Eh sì: Tinni tornava a trasudare questo sentimento che forse più di ogni altro la caratterizza perché, a dormire (quasi) tutta la notte, (quasi) da subito dopo la nascita, era una figlia non sua, ma della sua amica L.

Caterina, venuta alla luce una manciata di mesi prima, imperterrita e spavalda, come se avesse letto di nascosto un manuale di istruzioni celato alla gran parte dei suoi coetanei, si infilava da sola un dito in bocca e si addormentava in autonomia, mentre - nelle fantasie di Tinni - i suoi genitori si godevano finalmente una vita che a lei era stata per sempre strappata. 

Di nuovo quel maledetto aggettivo possessivo: sua figlia dormiva; sua figlia era brava; il mio no.


Ma forse i figli vengono al mondo per insegnarci loro qualcosa; e soprattutto per farlo con i tempi dilatati, respirati, accumulati nella pazienza di un granaio che vede crescere inesorabile una montagna di chicchi, uno appoggiato sull'altro. Molti anni sono passati da quando ho tenuto Viola in braccio per la prima volta (dopo essermi ben disinfettata le mani) o mi sono dedicata interamente a lei durante una serata al ristorante in cui i Grandi parlavano di formula uno o di ristoranti stellati; non lo sapevo, allora, ma poco alla volta, briciola su briciola, stava diventando anche mia. Gioele mi ha concesso il suo cuore dopo un tempo ancora maggiore e una diffidenza un po' mammona che da sempre lo hanno contraddistinto, ma pochi giorni fa, in piscina, è stata la mia presenza che ha richiesto a gran voce per fare "un tuffo a bomba", insieme, al suo via. Caterina, dopo che ha finito di consultare il manuale che solo lei aveva in dotazione, si è accorta che, nonostante tutta la sua temerarietà, tuffarsi con la mano di Guido aveva un sapore che nessun dito in bocca le aveva ancora offerto. E quando l'ho sentita reclamare il suo diritto in proposito, scegliendo proprio mio figlio come compagno di lancio - l'altra mano le serviva rigorosamente per tapparsi il naso - è stato come se all'improvviso il numero delle mie mani si fosse moltiplicato per quattro. 

E lì, a bordo piscina, prima di tirare il fiato e volare in acqua, mi sono girata un attimo e l'ho visto: il mucchio di chicchi finalmente divenuto granaio.

Per raccontarlo e capirlo meglio chiudo con una lunga metafora che viene da una disciplina non mia (ancora una volta), ma di qualcuno che - così come S. ed L. mi hanno dato i sentimenti per impastarlo - mi ha spesso regalato le parole per dare al mondo intorno a me una veste chiara e definita.

Nell'antico diritto quiritario, nel fondo più profondo della storia romana che precede tutto ciò che troviamo nei libri, c'era una volta un istituto giuridico chiamato consortium èrcto non cìto

"Consorzio tra eredi", si potrebbe tradurre. Quando più fratelli si ritrovavano ad ereditare un patrimonio paterno, infatti, potevano scegliere che questo gruzzolo - di cose, in epoca romana, ma forse anche di persone, se ci pensiamo bene - fosse gestito in comune da loro “attuando una sorta di società universale”. In tal caso "il diritto di ciascuno dei proprietari non si considerava come rispondente ad una frazione ideale dei beni paterni, bensì come una contitolarità solidale sul patrimonio": nulla era più, quindi, mio o suo: tutti erano proprietari del tutto.

Ebbene forse i nostri figli sono piombati nelle vite dei loro genitori proprio per insegnarci come funziona un istituto giuridico di epoca pre-repubblicana: forse loro erano là, nascosti da qualche parte, mentre gli antichi Romani alzavano la mano destra e pronunciavano il giuramento solenne che trasformava le loro frazioni in un tutto fraterno. E ce lo hanno voluto raccontare: ecco la nostra più preziosa eredità.


I titoli di coda di questo lungo film di parole ritraggono una Tinni che, oggi, ha meno paura di dormire troppo poco e che forse proprio per questo riesce - alle volte - a far addormentare tra le sue braccia l'ultima arrivata nella società universale dei figli: Beatrice, sorella di Caterina ma molto lontana dai suoi ritmi incrollabili di sonno e di veglia. Alle volte, finalmente libera dall'angoscia che le faceva considerare ogni risveglio come un fallimento, Tinni le canticchia all'orecchio una canzoncina che solo loro due conoscono e Beatrice si rilassa così tanto che chiude gli occhi beata oppure, più prosaicamente, le fa la pipì addosso - perché siamo in spiaggia e il pannolino non serve: e tutti noi, intorno, in mezzo ai nostri figli, ridiamo.


venerdì 6 giugno 2025

Corazze

 – Io però – disse Elena, – devo dire che nella corazza ci sto bene. Non è che io lo abbia letto sui giornali femminili: ci sto bene proprio, come si sta bene a casa.

Nel racconto Protezione Primo Levi magistralmente immagina uno scenario distopico in cui gli esseri umani si rintanano - o si lasciano rintanare - dentro pesanti armature di metallo. A cena, una sera, Marta - che è la padrona di casa e ha invitato una coppia di amici - avanza il sospetto che si tratti in fondo di poco più che un bisogno indotto; Elena però, che se ne è appena fatta commissionare una su misura, non sa e non può raccogliere alcuna provocazione in tal senso anche perché, come afferma efficacemente poco dopo

(...) mi sento protetta come in una fortezza, e alla sera quando vado a letto me la tolgo malvolentieri.

– Protetta contro che cosa?

– Non so: contro tutto. Contro gli uomini, il vento, il sole e la pioggia. Contro lo smog e l’aria contaminata e le scorie radioattive. Contro il destino e contro tutte le cose che non si vedono e non si prevedono. Contro i cattivi pensieri e contro le malattie e contro l’avvenire e contro me stessa. Se non avessero fatto quella legge, credo che mi sarei comperata una corazza lo stesso.


... Che cos'è la letteratura se non il doppio gesto di impugnare la matita per sottolineare un passo e - contemporaneamente - di inclinare leggermente la medesima frase per fare in modo che quel frammento di specchio rotto rimandi un'immagine - magari distorta, imprecisa, annebbiata - di noi stessi in quel qui ed ora?

Elena e la sua corazza iper accessoriata mi sono tornate alla mente in questa salatissima ultima giornata di anno scolastico e, per un attimo, hanno fornito la risposta altrimenti inaccessibile ad un dilemma che mi attanagliava già da qualche giorno.

Perché sei così triste, il sei giugno di ogni giugno e per tutto il giugno che ne consegue, fino a quando soltanto l'acqua del mare Adriatico è in grado finalmente di lavare via ogni particella scolastica dal tuo corpo?

Le budella cominciano ad attorcigliarsi già quando il caotico maggio in rincorsa cede il posto alla festa della Repubblica: il sorriso si aggancia come maschera vuota ogni mattina ma, poco più indietro, fa capolino quel sapore vischioso che, puntuale, ogni sei di giugno, invade poi come una macchia di benzina l'asfalto del tuo palato. Nemmeno le frisk lo sanno domare.

Perché?

Perché sei triste, che cominciano i vostri immeritati ed imperturbabili "tre mesi di ferie"? - chiederebbero gli amici di sempre, dandoti di gomito con quel loro fare canzonatorio e fraterno.

Ma come - si stupirebbe trepidante mia madre - non realizzi che da domani per fortuna potrai nutrirti meglio, senza ingoiare panini di fretta e stordirti di caffè?

Perché ti disperi, ora che hai finalmente finito di correggere verifiche fino a tarda sera, e di angustiarti il lunedì per le ore di lezione da preparare quasi in apnea? Ora che non dovrai più litigare con genitori e voti, puntare la sveglia al buio, conquistare adolescenti riottosi? - direbbe il mio saggio marito, che di fare molte di queste cose praticamente non smette mai.

Perché piangi, mamma, proprio adesso che possiamo giocare a UNO tutti i pomeriggi insieme? - pronuncerebbe scandendo attento le sillabe mio figlio (e già il fatto che il bogigio compaia ora su questi schermi per la prima volta come un interlocutore senziente avrebbe di che asciugarmi ogni lacrima - tornei di UNO a parte).


Elena lo sa, il perché. E adesso anche io.

Ogni primo di settembre, entrando in quei locali che ancora faticano a rilasciare il caldo attonito dell'agosto emiliano, i bidelli, ritti sull'attenti, consegnano ad ogni insegnante una corazza nuova di zecca, pronta a combattere insieme a noi i successivi nove mesi di sortite scolastiche. All'inizio il segno bianco del costume si strofina fastidioso contro il metallo rigido, ma ben presto ciascuno si accoccola volentieri in quel guscio e, volenteroso e solerte, si dirige verso l'aula assegnata. 

La corazza è ogni anno della mia misura, ma veste leggermente larga, in modo tale da lasciare un po' di spazio tra il mio corpo e la cappa: ed è proprio in quello spazio - solo all'inizio lo percepisco come freddo e nuovo - che, giorno dopo giorno, cominciano a rimbalzare tutti i salve prof, tutti gli scusi, i posso, i lo prometto e i d'accordo, anche quelli pronunciati più controvoglia; tutti quegli sguardi, quotidianamente puntati sulla mia corazza, vi penetrano - non c'è corazza senza giunture - e cominciano ad ondeggiarvi dentro, come pendoli impazziti. La sensazione dura e metallica lascia presto il posto ad un confortante tepore, prodotto dal vibrare di infiniti sbadigli, mani che si levano, penne che cadono, appelli, sorrisi, appunti, ripassi, confessioni, richieste d'aiuto alla vigilia di una prova, fogli tesi, presi e distribuiti: tutto trova spazio in quell'intercapedine larga giusto l'ampiezza di una spanna, in cui la scuola scivola e si incunea per non uscirne più.

Non c'è bisogno di null'altro, dal primo di settembre al sei di giugno: nessun riscaldamento centralizzato, nessuna giacca particolarmente imbottita. Tinni e la sua corazza ripiena e vibrante di scuola percorrono ogni mattina la Nazionale per Carpi sentendosi a volte appesantite, quello sì, ma mai spoglie. Al ritorno, in mezzo al traffico dell'ora di punta, a volte il ronzio del materiale didattico-educativo che prorompe da dentro la corazza deve essere coperto da un po' di buona musica al massimo volume, ma il più delle volte l'intero ecosistema produce qualcosa che assomiglia più che altro al rumore bianco con cui si addormentano i bambini. 

Tinni è protetta dagli spifferi della vita e procede marciando al solo suono delle giovani voci che la cercano, la deridono, la implorano, la consultano, la tartassano e (non sempre) la ringraziano; quelle giovani voci vergini che, rimbalzando contro il suo ego e la sua corazza, sanno coprire il suono di un'altra voce, senza età, che altrimenti approfitterebbe del silenzio come una zanzara feroce.

Ed ecco che, di fendente in fendente, arriviamo al sei di giugno. Come appaiono improvvisamente evanescenti, tutti quegli insegnanti spogliati dalla corazza che camminano quasi esangui verso il cancello d'uscita, nella loro pelle diafana da tanti mesi non più esposta al sole. Il pallore dei loro visi si rispecchia nel bianco dei faldoni di verifiche disordinate che, come tante formiche operose, vanno archiviando diligenti negli appositi spazi. Le aule scolastiche sono ormai solo un'eco delle risate beffarde di qualche ora prima e gli insegnanti in fila si squagliano stremati dentro automobili e biciclette, smobilitando il loro campo.

E Tinni sente, per la prima volta dopo nove mesi, l'altra voce. 

L'altra voce appartiene a qualcuno che assai di rado è stato menzionato in questo spazio così sempre brulicante di vita e di respiro. Una voce senza volto, senza età, e senza riposo. Una voce che, semplicemente, ripete: morirai; moriranno.

Tinni semplicemente non ce la fa, a venire a patti con l'altra voce. Non può accettare che il percorso abbia un termine: né per lei, né per chi ama, accanto a lei. Non c'è letteratura, non c'è filosofia, non c'è neppure fede che possa avvicinarla al realizzare che quella - sì, proprio quella - è l'unica certezza di cui dispone.

C'è qualcosa di più simile alla morte - essenziale, ciclica, tangibile - di un gruppo classe che, decomponendosi in venti particelle singole, dal sette di giugno, semplicemente, non esisterà più? Non ne è forse un assaggio letale il fatto che, ogni anno, una nuova quintaELLE usurperà le sedie della precedente, allegra ed ignara di ciò che l'ha preceduta, senza che di volti e storie rimanga poco più che un fievole ricordo?

Insomma: giugno, a Tinni, ricorda la morte: come può non odiarlo con feroce tristezza?


Eppure. 

Eppure questo giugno è un giugno ferale come gli altri ma anche un po' no. 

Perché? Perché sono tornata qui

Perché ho riletto un migliaio di parole con occhi nuovi ed antichi e allora forse sì, tutte quelle parole scritte, digitate, sospirate, piante, sorrise - non altrui, ma mie - si sono cucite, anche a distanza di anni, una sull'altra, imbastendo trama ed ordito di un abito che tanto metallico non è, e neppure robusto. La stoffa si affloscia leggera, aderendo al mio corpo: non c'è nessuna intercapedine. Una vestaglia, insomma, più che una corazza; ma in questo giugno cupo e mortale posso provare a farmela bastare.


domenica 1 giugno 2025

Un nuovo genere letterario:

... le lettere di fine "ciclo" agli studenti.


Una parabola, nel Vangelo, racconta una storiella che suona più o meno così:
una volta un seminatore – non particolarmente solerte, a quanto pare – mentre se ne stava lì pacioso e tranquillo a lanciare semi in terra, fece cadere per sbaglio una parte del suo sacchettino in vari posti in cui il seme non sarebbe dovuto cadere: e il Vangelo spiega che “una parte del seme cadde lungo la strada, e gli uccellini se la mangiarono; un’altra sopra ad un suolo roccioso, dove spuntò subito, sì, ma non poté mettere radici profonde, e inaridì; e un’altra parte ancora tra le spine, che crebbero e la soffocarono”. Solo una scarsa metà, quindi, di ciò che lui all’inizio custodiva tra le mani, poté infine cadere nella buona terra - quella arata, accogliente, matura – e da lì, finalmente, riuscì a portare frutto, a crescere rigogliosa, e a restituire al povero seminatore distratto un buon sessanta per cento di prodotto in più.    
Gesù – che sta raccontando questa storia ad una folla di gente che lo ascolta e chissà se lo capisce per davvero – conclude poi con una frase, che nei secoli è diventata un po’ stantia, e che fa: “chi ha orecchie per intendere, intenda”.

Io, per esempio, mica lo avevo inteso. 
A me, di parabole, piacciono quella dei talenti – perché amo i premi, e vincerli, se possibile – oppure quella del figliol prodigo, che torna a chiedere scusa dopo aver combinato un bel po’ di cazzate e mi ha sempre fatto sentire un po’ più in pace con la parte di me che un certo tipo di premi l’ha visto poco.
Quella dei semi, no: non la capivo.
Perché questo seminatore rimbambito fa cadere tutto quel ben di dio nei posti più assurdi? Non se ne accorge? C’è un buco in fondo al sacchetto? – mi chiedevo distratta, e troppo intenta a contare successi o tragicommedie della mia imperterrita vita. 
Ebbene, cosa è successo poi? È successo che l’anno scolastico che sta terminando – e che a volte mi sembra sia stato molto peggiore dei precedenti, mentre altre volte, più semplicemente, no – mi ha insegnato ad intendere almeno un pezzo della parabola del seminatore.

Sono stata un seminatore incauto – infatti – o non mi sono accorta che il sacchetto di classi che avevo ricevuto in dotazione era un po’ più rosicchiato dai topi e dall’usura rispetto ai precedenti? Durante tutti questi mesi di lezione, io seminavo ma in realtà credevo soltanto di farlo, perché tanta parte di quei minuscoli agglomerati di sillabe e righe rosse finiva a languire in posti strampalati e inaccessibili, da cui – forse, chissà, magari – un giorno, dopo un’inattesa innaffiata, produrrà un improbabile germoglio (che io non vedrò mai).
Seminavo, arrancavo, perdevo pezzi e mi affannavo a cercare quel maledetto buco nel sacco, senza notare, però, una cosa pazzesca.


Che una manciata di semi – esattamente ventitré – , prima piccoli ed intimiditi, poi sempre più arditi sui loro steli fragili, venivano alla luce alle mie spalle, in un piccolo angolo di prato incustodito.
Da dove saltavano fuori, quei ventitré germogli curiosi e sorridenti lì dietro? Quando accidenti li avevo interrati?
Perché, se è vero che l’anno scolastico 2024/25 mi ha insegnato a decodificare la parabola evangelica, ne ha raccontato anche un finale diverso, come se le storie di semina potessero essere ancora più pazze di come le aveva immaginate Gesù.
Perché io, quei ventitré semi, non li avevo nemmeno piantati. 
Li avevo lasciati in magazzino per dedicarmi prima al sacchetto bucato – c’erano dentro semi più grandi? O forse più piccoli? – e mi ero riproposta di tornarci dopo, ad occuparmene. Tanto sono in gamba. Tanto sono solo semi. 
E, invece, con la magia imprevedibile e la storta caparbietà che solo dei piccoli semi di quindici anni sanno dimostrare, quei ventitré puntolini erano diventati un prato. 
Un prato morbido e compatto che ora, quasi subito dopo averlo accarezzato tutto insieme per la prima volta, devo lasciare in eredità al nuovo fattore, che forse ci costruirà sopra un’altalena o forse una panchina.
Quei ventitré semi – le cui lezioni ho sempre preparato per ultime, negli scampoli del tempo rimasto, prima di addormentarmi sui libri o puntando la sveglia alle 5.55, che non ho mai accompagnato fuori dalle mura di questo capanno degli attrezzi che è il liceo Fanti, che non coordinavo, che davo per scontati, e che sono cresciuti così zitti e compiti da non farmi nemmeno voltare – sono stati il vero raccolto di quest’anno insolito: il vero miracolo, la vera parabola. 
E se prima erano soltanto dei ciuffi di verde separati da qualche invalicabile zolla di terra – i semi maschi di qua, coi cellulari in mano, i semi femmina di là, a sistemarsi i capelli allo specchio della finestra – in questo ultimo mese di scuola e di coltura sono diventati proprio un bel mantello erboso uniforme. 
Lo erano mentre ascoltavano allegri e rapiti i racconti epici sul padre esotico di un loro compagno, quando costruivano appassionate ed improbabili catapulte; lo erano mentre facevano il tifo per Lugli o per Carrara nella sfida più spassosa e all’ultimo sangue di tutto il biennio; in kayak, sui banchi, dietro alle telecamere di un filmato e anche chini coi volti sulle ultime verifiche sudate, tutti a fare il tifo per tutti.

Siete proprio un bel prato, cara seconda C, ed è stato un onore per me vedervi nascere, e crescere, e formarvi e fiorire senza quasi muovere un muscolo, dimenticandovi all’angolo della via e pensando che, alla fine, in qualche modo mi avreste comunque accolta, al mio ingresso in aula, col vostro sorriso riservato e un po’ perplesso. 
Buona fioritura lungo i prati del triennio e della vita.




giovedì 28 luglio 2022

Cinquanta sfumature di grigio (topo)

Ho comprato un'automobile nuova.

Dopo dieci interi anni di onorato servizio, due domicili, una consistente presenza ispiratrice su questi schermi, passi montani, isole, nevi, grandinate fuori dall'ordinario, urla infantili e una quantità incommensurabile di briciole - ebbene sì - Tinni sta per acquistare una panda nuova fiammante. 

Uguale in tutto e per tutto a colei che la precedette, o quasi. 

"O quasi" perché la panda nuova non sarà color rosso-allegria-simpatica, bensì - per questioni legate da una parte alle bieche manovre di vendita della ancor più bieca Fiat, e dall'altra ad altrettanto prosaici calcoli finanziari di Tinni stessa (la quale non intendeva sborsare alcunché di aggiuntivo rispetto al prezzo basilare) - tremate tremate... color "grigio-moda". Anzi, evitiamo fin dal principio di cadere nel pallido tranello del mio rivenditore e chiamiamo questa tinta col nome che merita: color "grigio topo".


Continuavo da settimane a rimuginare su questa scelta proletaria, scrutando ogni panda di quel genere alla ricerca di possibili sfumature di allegria e non trovandone alcuna, e mi chiedevo da giorni come avrei fatto a sopportare una vista tanto mogia ed opaca, quando oggi, di ritorno da una pausa pranzo che si era dimostrata già per molti versi benefica, ho ritrovato quello stesso colore non più tra le righe bianche delle corsie stradali, ma sul fondo del cielo, in direzione nord-est.

Stava per arrivare un temporale.

E qui ci starebbe, volendo, anche il pippone sul cambiamento climatico, sulla violenza di questi nuovi temporali forieri di danni e terrore, sulle mezze stagioni che mio figlio mai conoscerà, sul caldo asfissiante degli ultimi tempi e sull'aria condizionata che oramai condiziona le vite di tutti noi. Ci sarebbe, volendo, ma lo risparmierò alla mia stanca tastiera e arriverò dritta al punto.

Stava per arrivare un temporale e Tinni, nonostante le sue ataviche paure dei tuoni, sommate a quelle per i succitati danni da maltempo a cui questi tornado ci hanno abituato, nonostante i panni stesi da poche ore ed anche se la sua piccola, fragile e ormai morente panda era ancora piuttosto lontana da qualsivoglia riparo, beh, nonostante tutto questo, Tinni, al vedere quel colore fosco addensarsi all'orizzonte, invece di avere paura ha avuto... un ricordo.

Perché dovete sapere, cari i miei venticinque lettori, che in questi anni di assenza dallo spazio virtuale Tinni ha affrontato la cosa più grande che tutta la sua vita le avesse mai propinato, e cioè ha dato alla luce un figlio in piena pandemia. E il ricordo che questa madeleine al sapore di pioggia le ha ripescato alla mente oggi, durante la pausa pranzo, era proprio un ricordo dell'agosto 2020, quando il piccolo bogigio (soprannome di famiglia) aveva a mala pena un mese e mezzo e la neo-mamma Tinni stava vivendo uno dei periodi più bui della sua peraltro felice esistenza.

Era estate e c'era caldo, tanto caldo. Non si usciva mai perché il neonato piangeva, perché il neonato sudava, perché il contagio aumentava e perché Tinni da settimane non si lavava né le ascelle né i capelli. Le giornate si susseguivano uguali le une alle altre come solo quelle degli agosti in cui non si va in ferie sanno fare; monotoni e asfissianti come possono essere soltanto i giorni di chi ha appena avuto il primo figlio; tesi e accidentati come quelli di chi si è ritrasferito a casa dei propri genitori e ha paura di diventare grande per davvero.

Anche quel giorno ilmeteo.it prevedeva ore e ore di pallino arancione, eppure, in un pomeriggio anonimo come tutti gli altri, all'improvviso, da lontano, si udirono dei rombi di tuono.

L'acquazzone arrivò lesto e furioso, Tinni accese la luce nella sua mansarda trasandata, furono chiuse imposte e alzate zanzariere, la pioggia distrusse e poi scivolò via. 

E fu allora che Tinni, in un insperato moto di creatività, si legò il bogigio addosso e decise di uscire nel giardino, ancora con i pantaloni verdi del pigiama. Accuse di sconsideratezza le piovvero come sempre sulla testa, insieme agli ultimi goccioloni che il temporale tardava a portarsi via, ma lei spazzò via gli uni e gli altri con una lieve manata sui capelli.

Voleva far conoscere a suo figlio la pioggia. 

E qui vi prego - anche se a prima vista potrebbe apparire spontaneo il contrario - di sgomberare il campo - mentre immaginate questa scena - da qualsiasi pensiero di tenerezza o cucciolosità materna: in quei mesi il bogigio era per Tinni solamente un groviglio di incomprensione e senso di colpa. Non ero una madre (ne esistono?) che culla protettiva il proprio figlio sussurrandogli che l'ama. Odiavo il suo estenuante desiderio di tetta e non sopportavo i suoi sonni agitati. Mi chiedevo assai spesso chi me l'avesse fatto fare. Contavo i giorni nella speranza - sempre frustrata - che qualcosa migliorasse. Non mi ritrovavo in nessuno dei pensieri sulla maternità che avevo elaborato in gravidanza.

Ma avevo voglia di qualcosa di nuovo. Ed un buon temporale estivo - sia pur distruttivo od impazzito - rappresentava a quei tempi l'unico diversivo possibile. Non potevo lasciarlo scappare. E non potevo più, del resto, pensare di godermelo da sola. 

E così portai Guido in fascia a leccare le prime gocce di pioggia della sua vita, mentre mi nutrivo del fresco attraverso la canottiera del pigiama e pucciavo i piedi nudi nelle pozzanghere del selciato.

Ero felice? Penso fosse ancora molto presto per parlare di gioia. 

Sono felice oggi, che Guido ha pronunciato in una giornata almeno venti parole nuove, mi ha mostrato che sa fare le bolle con la saliva e si è lavato da solo le ascelle e sotto il mento.

Nell'agosto del 2020, dopo il temporale e intorno alla casa, con il bogigio in fascia, Tinni, semplicemente, si ricordò che la felicità esisteva ancora, tra le possibili sfumature dell'esistenza, e le fece ciao ciao, di lontano, agitando una manina che non era la sua.

E così tra un mese, quando riceverò la mia nuova panda color grigio moda topo, ho deciso che saluterò in lei e nella sua temporalesca apparenza questa nuova fase di tinnica vita, una fase in cui quando l'oscuro tornado arriva sul tuo capo, puoi sempre approfittarne per un rinfrescante pediluvio.


mercoledì 18 settembre 2019

Elogio della lavagna

Sulla (sacrosanta) modernizzazione della scuola e di tutte le sue attrezzature tecnologiche molto è stato detto, scritto e pure gridato. Viva le LIM, quindi, e ben vengano i tablet, il registro elettronico, la de-materializzazione, le smart pen.
Ma non toccatemi la lavagna.

Nera, rigorosa, infrangibile, foriera di allergie.
Poco simpatica ad un primo pensiero, senza dubbio, ma preziosa come quasi null'altro sa esserlo tra le pareti di una scuola.

Poco fa, mentre tornavo da un secondo giorno filato liscio come ardesia, ho ripensato alla lavagna e ho trovato un motivo nuovo e diverso per volerle tantissimo bene, così tanto da annotarlo qui, per non scordarlo mai più.

Ma ripartiamo dall'inizio.

La prima volta che ho provato amore per la lavagna è stata voltandomi indietro, dopo aver fatto quei tre o quattro passi che separano la cattedra dall'ultima fila. Ti ho amato voltandomi indietro a guardarti - direbbe la mia tastiera se fosse quella di un poeta, e la frase potrebbe trovare uno spazio più che dignitoso stampata all'interno di una pellicola di baci Perugina. Quel giorno, voltandomi indietro a squadrarla, per la prima volta consapevole, mi sono innamorata della lavagna.

Portava scritte parole stratificate e accumulate nel tempo (un po' come il testo omerico e il cielo stellato sopra di noi), trapuntate lungo le due ore di lezione, e nel suo sghembo, polveroso e disordinato intrico stava nascosto il senso ultimo di quello spiegare, che neppure io avevo còlto nel profondo. C'erano dentro il mio carattere, la mia fretta, il mio entusiasmo e l'umore di quella mattina, tutti stretti e aggrovigliati nella grafia; c'erano le cose dette da loro, dagli studenti, impreviste guide verso la vetta; c'era il sentiero e c'era la méta, entrambi scavati nel buio del nero, a forza, fino alla bianca cima.
Come si può non amare ciò che in un colpo dà senso al tuo lavoro?

Ma oggi ho riflettuto di nuovo attentamente sulla lavagna e ho capito che c'è di più: che l'amore che le dobbiamo va ben al di là di noi singoli prof di quell'ora e copre come una coperta tutto il mondo della scuola, anche - e soprattutto - quello di cui le cronache parlano meno, e cioè il resto del mondo adulto.

Già alla fine dello scorso anno un collega - che anche solo in virtù di tale affermazione dovremmo ad onor del vero investire del titolo di amico - mi diceva che, entrando in classe dopo di me, si divertiva a leggere i brandelli delle mie (nostre) parole, e a tentare di agganciarci un filo, un chiodo, una rete, a cui si attaccassero, nell'ora a venire, anche le sue.
Quante volte abbiamo sentito parlare di interdisciplinarità? Ce n'è forse una più efficace di quella che la lavagna - paziente, nera, rigorosa - ci insegna ogni giorno se solo indietreggiamo di qualche passo per guardarla per bene?

Prima di oggi, ogni mattina, generalmente entravo in aula, appoggiavo lo zainetto e, per dare un attimo di respiro alla classe, le voltavo le spalle cancellando tutta la lavagna da cima a fondo. Aspettavo ancora un paio di secondi per captare qualche voce sopra il coro, per annusare i malumori e per prendere fiato, poi mi giravo e un due tre via cominciava la mia lezione.

Oggi, invece, entrando in una classe per la prima volta, tesa come sempre quando si squadrano una dopo l'altra venticinque facce nuove, ho cancellato malamente, tirando solo qualche riga veloce sopra ad ordinate divisioni in sillabe.
Ci ho anche scritto, poi, sulla lavagna e, nonostante fosse ancora il secondo giorno di scuola, a fianco di quelle sillabe separate hanno trovato spazio le cose da portare domani e qualche parola latina, scelta per presentarmi.

Scrivevo in mezzo a quegli squarci di nero lasciati liberi con gentilezza e, magicamente, non ero più sola.
Non ero più la sola adulta lì dentro. Non ero più la paladina del latino chiusa tra muti colleghi ostili; non ero più l'unica in grado di voler bene a quel mucchietto di spauriti pulcini usciti dal nido, quella che li capisce, la guerriera solitaria, l'impeccabile avvocato in un mondo di accuse.
Non ero più solo la prof di, ma ero d'improvviso anche la compagna di: ed il viaggio verso l'intervallo, come quello dalla cima di una montagna giù verso il mare, mi è parso all'improvviso molto più sereno.

Non cancellerò mai più del tutto la lavagna, da domani in avanti. I colleghi lavorano con la stessa argilla, sugli stessi banchi, impugnando ogni giorno gli stessi attrezzi; solo le loro mani sono diverse.
Meno male che c'è stata la lavagna a ricordarmelo.






(E poi, sempre grazie alla lavagna, dimostrano il loro quotidiano lavoro anche i bidelli, pulendola accuratamente dopo ogni giornata. Anche loro fanno parte della categoria scolastica degli altri adulti nella scuola, di cui troppo poco si parla, o troppo male. Ma questa è un'altra storia).


martedì 17 settembre 2019

Anniversari (Caro Manfredo)

La mia scuola ha qualcosa da festeggiare: sono ottant'anni che esiste.
Qualche mese fa mi è stato chiesto di scrivere un pezzo sulle pagine dell'opuscolo dedicato, pubblicato e distribuito per l'occasione. Lo appoggio anche qui, come tutto ciò che esce dalla tastiera di questo computer e che mi dà gioia rileggere.

(W la squola.)


Caro Manfredo,
sono ormai ottant’anni che esiste una scuola intitolata alla tua memoria e nel prepararci ai festeggiamenti qualcuno di noi ha avuto la curiosa idea di venire a chiederti come stai.
Ottant’anni, sì: precisi. Sappiamo contare bene, perché la scuola è nata come liceo scientifico e ha già conosciuto diverse generazioni di irriducibili insegnanti di matematica. Sono solo ottant’anni e, no, non si tratta dell’Accademia Militare di Modena, che pure tu hai gloriosamente contribuito a fondare ben centosessant’anni fa; forse la notizia ti deluderà, ma siamo un semplice liceo di provincia, nella tua città natale, e di militare i nostri studenti hanno ben poco, se si eccettuano certi eccentrici pantaloni col cavallo basso. Pressoché nessuno imparerà a sparare con un fucile o marcerà sudando sotto un elmetto; non saranno certo in molti a potersi cucire gradi sulla divisa e forse solo uno sparuto numero di loro saluterà il proprio superiore con un gesto marziale della mano, mettendosi sull’attenti.
Tante cose sono cambiate da quando c’eri tu, sulla scena del mondo, caro Manfredo. Non mi è ancora ben chiaro quanto tu sappia di ciò che, nel frattempo, è accaduto nella terra dei vivi, e cercherò dunque di dosare con prudenza le notizie: in fondo, sono qui solo per chiederti come stai, non certo per provocarti sconvolgimenti esistenziali.
L’esercito italiano, ad ogni modo, esiste ancora e questo contribuirà a rassicurarti, ne sono certa. Anche l’Italia esiste ancora, e con qualche (consistente!) pezzo in più rispetto a quando l’hai lasciata. Quindi, innanzitutto: grazie. Grazie per aver dedicato il tuo tempo a combattere perché questa nazione esistesse e perché Carpi ne facesse parte. Grazie anche per aver immaginato un luogo come l’Accademia Militare: negli anni della mia istruzione superiore, a Modena, le finestre del liceo affacciavano proprio su quelle del Palazzo Ducale e, durante le faticose ore di latino, indirizzare ai cadetti un saluto fugace o cuoricini disegnati su pezzetti di carta rappresentava per noi uno dei diversivi più eccitanti. So che probabilmente non lo immaginavi tra i benefici potenziali del tuo ambizioso progetto, ma questo è proprio ciò che contraddistingue le Grandi Invenzioni dell’Umanità, i cui effetti spesso travalicano – con autonoma genialità – le intenzioni dei loro ideatori.
Un’altra cosa che credo ti farà piacere sapere è che nel nostro liceo – l’unico in Italia a portare il tuo nome, ci tengo a sottolinearlo, e quindi, con un buon margine di probabilità, anche l’unico al mondo e il solo nell’universo – molti studenti, oltre alla matematica, studiano il francese e lo spagnolo: tu, che hai visto Francia e Spagna accogliere il tuo esilio e contribuire non poco alla tua formazione (per non parlare dell’amore!), non potrai che approvare questa scelta, con quel severo cipiglio che abbiamo imparato a riconoscere dalle poche tue immagini che sono giunte fino a noi. Occorre però precisare che si insegnano anche l’inglese e – siediti prima di continuare a leggere – il tedesco. Devi capire che l’Austria da tempo non è più nostra nemica e non è neppure più un impero, ma un semplice staterello un po’ schiacciato, da quando – e lo preciso sapendo che fremerai di orgoglio – ha perso una guerra grande e sanguinosa nella quale noi, cioè l’Italia, abbiamo incredibilmente scelto di stare dalla parte vincente; oggi, addirittura, Italia e Austria siedono fianco a fianco, insieme a tanti altri paesi, in un grande Parlamento che si chiama Europa.
Tradimenti, ostilità, contestazioni, nemici e divergenze politiche popolano ancora il mondo, quello con la M maiuscola e anche il nostro piccolo universo scolastico. Nuovi Garibaldi e diversi Cavour occupano i posti che contano, mentre la maggior parte di noi siede su sgabelli in ultima o penultima fila, o nel banco che dà sulla finestra, con mano pronta ad afferrare gli scampoli di felicità che la vita ci offre, e spesso in maniera inattesa.

E tu? Quando sei stato davvero felice? Cronache e storie che si trovano su internet – un’immensa enciclopedia condivisa da tutti gli abitanti del mondo, probabilmente la cosa che più ha rivoluzionato le nostre vite negli ultimi vent’anni – ci parlano solo di battaglie vinte e discussioni ministeriali, ma io voglio credere che, per te come per noi, i momenti più belli dell’esistenza siano stati – anche, e soprattutto – tra le pieghe delle grandi date, nascosti in mezzo alle ricorrenze più roboanti, ai margini delle vittorie e nei cantucci dei riconoscimenti.
Passeggiavi anche tu sotto i portici di piazza dei Martiri (anzi no, piazza Maggiore ai tuoi tempi), nelle afose estati emiliane, sentendoti piccolo e schiacciato di fronte a quell’infinito spiazzo assolato, eppure fiero, da carpigiano, di farne parte? Capitava anche a te, quando il sole scende e rade la campagna allungandosi come a volerne toccare le punte, di camminare fuori dal centro abitato e di spingere quasi allo stesso modo lo sguardo lontano, da tutte le parti, per godere di quella terra bassa, uniforme, rassicurante e addomesticata, sempre amica a se stessa? Ti ritrovavi forse, ogni tanto, durante le marce, ad ascoltare il ritmico rumore dei passi altrui, indissolubilmente mescolato al tuo? Percepivi – come accade a volte, giusto per un istante – in quel coro muto di sforzo comune un guizzo di energia felice, per quegli io che con naturale armonia sembravano diventare un noi?
È un mondo stravolto e bizzarro, caro Manfredo, quello in cui oggi viviamo, così distante dai tuoi orizzonti che devo pesare ogni parola prima di scriverla. Sono sillabe immateriali, volatili, irraggiungibili, che stendo una a una su un supporto che non è più carta e con un tratto che non sa più di grafite.
Per raggiungere la scuola, ogni mattina, studenti e professori percorrono strade intitolate a eventi cruciali cui non hai potuto assistere (al 24 maggio 1915, per esempio, avresti di certo partecipato con entusiastico impegno) o a personaggi che hanno cambiato i contorni del nostro pensiero in un modo che non potevi prevedere (Giovanni XXIII – un papa! – oppure altri, dai nomi impronunciabili e in idiomi stranieri, come Einstein, Lenin, Roosevelt); il nostro andirivieni quotidiano celebra martiri che per tua fortuna non hai dovuto piangere: per chi viene da fuori, verso la campagna, c’è via 29 maggio, che ricorda un terremoto violento e impietoso di soli sette anni fa, mentre in città rimarresti forse perplesso di fronte a vie dedicate alla sedicenne Anna Frank o a un magistrato della lontana Sicilia, che di cognome faceva Falcone. Industrie, capannoni, parcheggi ed enormi ammassi di negozi chiamati centri commerciali punteggiano oggi un panorama che stenteresti a riconoscere.
Tutti i giorni, da settembre a giugno, adolescenti tra i quattordici e i diciannove anni si alzano, sbadigliano, bevono un caffè e si dirigono assonnati, percorrendo questa nuova Carpi, verso una scuola statale e gratuita, dove non ci sono generali (o meglio, dove ce n’è uno, sì, ma che porta i tacchi e ama dipingere i muri di giallo) né uniformi; non ci sono reggimenti, armistizi, brigate. Tutti i giorni, da settembre a giugno, piccole formiche dai vestiti variopinti varcano un cancello che reca il tuo nome, Manfredo, per vivere cose che ti lascerebbero di sicuro a bocca aperta: fotografie, disegni, giochi, canzoni, merende, risate. Eppure, caro Manfredo, a loro modo, tutte queste strambe formichine fanno qualcosa che anche tu, vicino e diverso, sapresti riconoscere: brandendo nella destra non fucili ma penne, cellulari e mani altrui, studenti e professori, ogni giorno, combattono una piccola ma energica battaglia. Per essere ogni giorno un po’ più uniti, un po’ più liberi; ogni giorno un po’ migliori.

Tutto sommato, quindi, noi stiamo bene, qui al Liceo Fanti, e speriamo che anche per te sia lo stesso.

Buon compleanno a noi e anche un po’ a te.