Era il settembre 2019 e no, Tinni ancora non aveva ricevuto in affidamento alcuna corazza d'ordinanza: la sua pelle, benché abbrustolita dal sole del viaggio di nozze, era dunque piuttosto vulnerabile alle ferite e ai contraccolpi dell'esistenza.
Era il settembre del 2019 e poco tempo prima di allora diverse misurazioni le avevano garantito che al suo interno stava prendendo forma una nuova vita. Nessuna misurazione, però, e nessuna persona esperta dei fatti aveva potuto o saputo avvisare quell'euforica ed inconsapevole portatrice di vita che le cose, in quel campo, non sempre funzionano come durante i test del tipo di scuola a cui lei era stata abituata.
Era il settembre del 2019, quindi, e fino a pochi giorni prima Tinni era convinta di essere incinta; quella mattina, invece - di colpo, come solo le notizie raccapriccianti sanno arrivare - a Tinni era stato detto che, forse, semplicemente, non lo era più.
Come si trascorrono ventiquattro ore di attesa nelle quali il tuo corpo decide - microgrammo ormonale dopo microgrammo ormonale - se ha cambiato idea e preferisce spaccare in mille pezzi i piani che il suo padrone ha organizzato con la sola collaborazione del proprio cervello?
Nel caso di Tinni, si telefona ad S. e le si chiede di portarla con sé ovunque abbia programmato di andare. Ed S., che di figli ne ha due e, insieme ad essi, una serie di eventi pratico-organizzativi a cui presiedere, risponde al cellulare dopo soli due squilli e le garantisce che l'aspetta di lì a dieci minuti.
Cominciava così uno dei pomeriggi più amari, fragili e vischiosi della sua recente esperienza di vita. Tinni barcollava come colpita da un pugno sleale reggendosi terrea al braccio di S., che se la portava dietro implacabile al parco, alla posta, in rosticceria e, alla fine, nel supermercato dietro casa, per comprare un paio di quelle ultime cose che mancano sempre.
S. e Tinni, seguite a ruota da Viola - sei anni - e Gioele - tre - percorrevano quindi alcune corsie e un paio di banchi frigo per poi approdare alla cassa; e mentre la nostra protagonista sentiva letteralmente scivolare fuori da sé una vita densa e collosa di sogni, S. aveva detto alla cassiera: scusami, sai, ma i miei figli hanno fatto un po' di casino. Le merci, in effetti, non erano più molto in ordine lungo il loro nastro trasportatore, e forse qualche pacchetto di patatine era stato aperto almeno parzialmente, ma a centrarmi come uno schiaffo fu quell'aggettivo possessivo che forse S. aveva usato diverse altre volte prima di allora ma al quale non avevo mai attribuito la stessa dolorosa e straziante importanza.
I miei figli. I suoi. Quelli che lei aveva saputo accogliere e coltivare e lentamente plasmare nel suo grembo felice e che io, invece, stavo lasciando sgusciare via, senza poter opporre alcuna resistenza.
Trasudava invidia, oltre che sudore, il mio braccio letteralmente avvinghiato al suo mentre il sole del settembre 2019 ci accoglieva di nuovo in tutta la sua tempra fuori dalle porte scorrevoli del supermercato: invidia, sudore ma anche struggente bisogno che lei restasse lì, senza essere altro che S., la mia amica S., con due figli e due borse della spesa, a reggermi e a fare finta che il giorno dopo sarebbe stato uguale a tutti i giorni precedenti.
Ed improvvisamente era già l'ottobre, e il novembre, e poi ancora il dicembre dell'anno successivo e Tinni, alla fine, una vita l'aveva davvero creata: non quella del settembre 2019, non quella del supermercato con S., non quella su cui le chimere adolescenziali l'avevano indotta a fantasticare. Rimanere incinta per davvero era stato qualcosa di molto più simile ai brandelli di stanchezza vittoriosa dell'ultimo giorno di una guerra civile. Però era successo: Tinni aveva un figlio suo.
Però suo figlio non dormiva: quasi mai più di due ore consecutive. Tinni assisteva, così, di nuovo impotente, allo sgretolarsi dei suoi ritmi circadiani e delle sue scolastiche certezze e, per di più, si confrontava ancora una volta con l'invidia. Eh sì: Tinni tornava a trasudare questo sentimento che forse più di ogni altro la caratterizza perché, a dormire (quasi) tutta la notte, (quasi) da subito dopo la nascita, era una figlia non sua, ma della sua amica L.
Caterina, venuta alla luce una manciata di mesi prima, imperterrita e spavalda, come se avesse letto di nascosto un manuale di istruzioni celato alla gran parte dei suoi coetanei, si infilava da sola un dito in bocca e si addormentava in autonomia, mentre - nelle fantasie di Tinni - i suoi genitori si godevano finalmente una vita che a lei era stata per sempre strappata.
Di nuovo quel maledetto aggettivo possessivo: sua figlia dormiva; sua figlia era brava; il mio no.
Ma forse i figli vengono al mondo per insegnarci loro qualcosa; e soprattutto per farlo con i tempi dilatati, respirati, accumulati nella pazienza di un granaio che vede crescere inesorabile una montagna di chicchi, uno appoggiato sull'altro. Molti anni sono passati da quando ho tenuto Viola in braccio per la prima volta (dopo essermi ben disinfettata le mani) o mi sono dedicata interamente a lei durante una serata al ristorante in cui i Grandi parlavano di formula uno o di ristoranti stellati; non lo sapevo, allora, ma poco alla volta, briciola su briciola, stava diventando anche mia. Gioele mi ha concesso il suo cuore dopo un tempo ancora maggiore e una diffidenza un po' mammona che da sempre lo hanno contraddistinto, ma pochi giorni fa, in piscina, è stata la mia presenza che ha richiesto a gran voce per fare "un tuffo a bomba", insieme, al suo via. Caterina, dopo che ha finito di consultare il manuale che solo lei aveva in dotazione, si è accorta che, nonostante tutta la sua temerarietà, tuffarsi con la mano di Guido aveva un sapore che nessun dito in bocca le aveva ancora offerto. E quando l'ho sentita reclamare il suo diritto in proposito, scegliendo proprio mio figlio come compagno di lancio - l'altra mano le serviva rigorosamente per tapparsi il naso - è stato come se all'improvviso il numero delle mie mani si fosse moltiplicato per quattro.
E lì, a bordo piscina, prima di tirare il fiato e volare in acqua, mi sono girata un attimo e l'ho visto: il mucchio di chicchi finalmente divenuto granaio.
Per raccontarlo e capirlo meglio chiudo con una lunga metafora che viene da una disciplina non mia (ancora una volta), ma di qualcuno che - così come S. ed L. mi hanno dato i sentimenti per impastarlo - mi ha spesso regalato le parole per dare al mondo intorno a me una veste chiara e definita.
Nell'antico diritto quiritario, nel fondo più profondo della storia romana che precede tutto ciò che troviamo nei libri, c'era una volta un istituto giuridico chiamato consortium èrcto non cìto.
"Consorzio tra eredi", si potrebbe tradurre. Quando più fratelli si ritrovavano ad ereditare un patrimonio paterno, infatti, potevano scegliere che questo gruzzolo - di cose, in epoca romana, ma forse anche di persone, se ci pensiamo bene - fosse gestito in comune da loro “attuando una sorta di società universale”. In tal caso "il diritto di ciascuno dei proprietari non si considerava come rispondente ad una frazione ideale dei beni paterni, bensì come una contitolarità solidale sul patrimonio": nulla era più, quindi, mio o suo: tutti erano proprietari del tutto.
Ebbene forse i nostri figli sono piombati nelle vite dei loro genitori proprio per insegnarci come funziona un istituto giuridico di epoca pre-repubblicana: forse loro erano là, nascosti da qualche parte, mentre gli antichi Romani alzavano la mano destra e pronunciavano il giuramento solenne che trasformava le loro frazioni in un tutto fraterno. E ce lo hanno voluto raccontare: ecco la nostra più preziosa eredità.
I titoli di coda di questo lungo film di parole ritraggono una Tinni che, oggi, ha meno paura di dormire troppo poco e che forse proprio per questo riesce - alle volte - a far addormentare tra le sue braccia l'ultima arrivata nella società universale dei figli: Beatrice, sorella di Caterina ma molto lontana dai suoi ritmi incrollabili di sonno e di veglia. Alle volte, finalmente libera dall'angoscia che le faceva considerare ogni risveglio come un fallimento, Tinni le canticchia all'orecchio una canzoncina che solo loro due conoscono e Beatrice si rilassa così tanto che chiude gli occhi beata oppure, più prosaicamente, le fa la pipì addosso - perché siamo in spiaggia e il pannolino non serve: e tutti noi, intorno, in mezzo ai nostri figli, ridiamo.
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