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giovedì 7 marzo 2019

C’era una volta la Luna


 (Ariosto, telefoni e monete)

Dove finiscono i numeri di telefono fisso che scompaiono all’improvviso?
Dove si accatastano, dismesse, tutte quelle cose che non si toccano ma dalle quali siamo presi per mano, giorno dopo giorno, e accuditi lietamente nei nostri bisogni primari?
I numeri del telefono fisso; gli indirizzi delle case di montagna; le prime giornate di sole della primavera (quando viene l’inverno) e i bagliori della città notturna dietro alle rassicuranti imposte (quando torna il mattino); le canzoni dentro alle musicassette, l’appello di una classe ormai promossa, il profumo del maglione di un amico, si riuniscono per caso tutti insieme?

Ariosto amava pensare alla Luna, come méta di tutto ciò che sulla terra, quotidianamente, si perde: e allora anche io, oggi, mi accodo a lui, aggiugendo a quel quadro extraterrestre un angolino speciale.

Dietro alla faccia della Luna che l’uomo vede ogni notte, infatti, secondo me c’è una mite montagnetta che accoglie, sopra di sé, quello che ha vissuto sulla terra senza mai essere vivo e che, ad un certo punto, semplicemente non ci è stato più.

Il thè è la bevanda che tutti sorseggiano – seduti per terra taluni, sopra ad un telo i più previdenti – mentre con la nostalgia prudente di chi chiude la porta per sempre rievocano i momenti più gloriosi del loro essere là. Gite scolastiche, crisi di nervi, feste a sorpresa sono i più raccontati, ciascuno alla propria maniera, dal proprio invisibile punto di vista, mentre buoni e silenti gli altri inghiottono liquido caldo annuendo avveduti.

Ma ai piedi di quella montagnetta serafica, poco lontano dal cerchio pacato delle cose che hanno vissuto senza vita, si agita incerto un altro grumo di idee. Ha avuto poco tempo per rendersene conto, ed è per questo che si aggira inquieto senza osare interrompere il ritornello sottovoce dei non più seduti in cerchio, di cui pure avrebbe così tanto bisogno.
È il mucchietto delle cose che dal perenne oblio stanno per essere riagganciate alla mente dell’esistenza: così, senza apparente motivo, con la stessa imperscrutabile armonia che ha reciso quel filo telefonico e trasferito il collega lontano. Sono le parole delle canzoni in inglese che tutto ad un tratto qualcuno riconosce, sgranandole dal baccello dei suoni indistinti, dopo aver riascoltato quel brano in ogni spazio e in ogni tempo; sono la margherita che sbatte la testa contro il cemento, tante e tante volte, e solo quando ha salutato per sempre le proprie radici riesce a fare capolino al margine del marciapiede; sono una lettera d’amore nella bottiglia, approdata e letta anni dopo il matrimonio, l’orchidea rifiorita in soffitta, la moneta in lire ritrovata nell’era euro. Sono tutte le cose dimenticate prima ancora di prendere il via, e che ad un tratto, chissà perché, tornano alla mente. Ma come potranno tornare alla mente, loro che in una mente non sono mai state? Come sapranno orientarsi per strada, chiedere aiuto, trovare la casa? Il tempo stringe e la chiamata è imperiosa: non resta loro che farsi coraggio, e bussare nervose alla cima della montagna mite, dietro a quella faccia di Luna che l’uomo – che le aspetta senza saperlo – vede ogni notte.

È permesso? – chiederanno titubanti senza regolare il proprio tono di voce sul soffuso chiacchiericcio dei mai piùavremmo bisogno di voi.
E i numeri di telefono, allora, gireranno i loro colli così fissi verso quelle voci tanto più squillanti delle loro, e sbigottiti ritroveranno il sapore delle dita sui tasti a comporre proprio il loro prefisso. Bisogno di noi? Davvero?

Di fronte a quelle paia di occhi sgranati, a quel silenzio curioso, a quelle tazze di thè protese e ricolme, tutte le idee morte sul nascere sentiranno improvvisamente intorpidirsi le loro dita di vita. Chiederanno allora consigli, strade, indirizzi, recapiti. Solleciteranno suggerimenti, accoglieranno storie esemplari. Passerà così tutta la notte, mentre gli uomini, laggiù, ammireranno stolti la parte sbagliata della Luna, senza immaginare che, lontano lontano, qualcuno prepara per loro sorprese ed arrivi.

E giungerà il mattino; e le margherite, le parole delle canzoni inglesi, le orchidee e le bottiglie si metteranno tutte in fila, pronte e sagge, per il nuovo viaggio che le attende.

Ma la moneta da duecento lire, ultima arrivata della schiera, ritardataria nel suo rotolare gentile, si accorgerà per prima che qualcosa non va. Un mormorio diffuso, un rumore bianco di sospiri, odore di lacrime. Qualcuno, da qualche parte, sta soffrendo.
E rotolando dolce verso un fossato, ai piedi di quella montagnetta mite, troverà qualcosa che, fino ad allora – come tanti, come tutti – nessuno aveva notato.

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Perché sulla Luna non ci sono solo le cose che l’uomo perde, quaggiù – come raccontava Ariosto; non ci arrivano soltanto i vecchi numeri di telefono dismessi; non si accumulano, in attesa di ripartenza, unicamente le idee che tornano senza essere mai salpate. No. Ci sono anche, ben nascoste per la vergogna dentro un fossato ai piedi del monte, tutte le cose che non sono mai nate, non hanno mai vissuto e che la speranza di esistere ha abbandonato definitivamente. Ci sono gli amori impossibili, le tracce dei CD che non vengono masterizzate (quelle che il lettore dopo un secondo salta e passa automaticamente alla canzone successiva), i treni annullati, i rullini che hanno preso luce, le parole mai arrivate a destinazione (non ascoltate, non digitate, non pronunciate): un profluvio di participi passati accompagna inesorabile queste anime secche, senza un prima né un poi da raccontare al vicino. Ed è per questo che piangono lacrime asciutte ogni volta che un nuovo treno di canzoni inglesi e monete fuori commercio salpa esultante verso il nostro pianeta. Piangono, sospirano, lamentano. E restano lì, nel loro fossato perdente.
Da lì, da quel fossato perdente, hanno visto arrivare i primi numeri di telefono fisso, quando i cellulari hanno cominciato a bussare prepotenti alle vite degli uomini, hanno assistito alla colonizzazione delle musiche su disco, prima, e su nastro, poi; erano già lì quando è volato sulla Luna il senno di Orlando e si sono nascoste bene, quando Astolfo è arrivato a cercarlo. Gli amori impossibili non finiscono mai – ha detto qualcuno: e chi è stato sulla Luna aggiunge che non finiscono mai di piangere secchi, lassù, osservando ogni giorno arrivi e ripartenze, aridi ma tenaci.

Finché, un giorno (quel giorno), la monetina da duecento lire li scoprirà gementi e, in barba al suo ritardo sugli orari di avviamento, si chiederà se non sia il caso – vista la loro lunga esperienza di osservatori – di porgere anche agli amori impossibili qualche domanda pratica. Che cosa ne pensano, loro, del suo programma? Quante monete hanno visto arrivare, nei secoli, spogliate di ogni bene, prima che ci pensassero archeologi e collezionisti a regalar loro una nuova casa? Meglio fare come i sesterzi o come i franchi? Come scegliere il nuovo padrone?
E sentendosi apostrofare per la prima volta in vita loro, sferzati da quella curiosità così aliena, gli abitanti del fossato senza speranza si stringeranno prima nelle spalle, si guarderanno poi attorno circospetti, e infine, con lo sguardo verso il proprio ombelico, si chineranno su di sé. Per accorgersi che, in tanti secoli di partenze e abbandoni, a forza di vegliare su nascite e morti, proprio in mezzo a quel rumore bianco di sofferenza ovattata sono riusciti ad accogliere e ascoltare più di chiunque altro, sulla Luna.

La monetina da duecento lire si metterà dunque a rimbalzare tra un amore impossibile e una traccia mp3, raccogliendo qua e là preziosi frammenti di affetto e di cura, dimenticati ed incrostati laggiù, sul fondo del fossato, in partenze troppo frettolose e arrivi eccessivamente melanconici, lungo tutti questi anni. Per salutarla, alla fine, lei che per prima e sola avrà intuito la loro antica ricchezza, si alzeranno tutti – anche se a fatica, anche in mezzo a rinsecchiti reumatismi – e raggiungeranno il resto della ciurma sulla cima della montagnetta mite, sempre invisibile agli occhi umani che scrutano la Luna senza trovarle il senso.

L’ultimo consiglio, il più prezioso, sarà però di un decrepito rullino degli anni settanta, di quelli che – se non avesse incontrato la luce – avrebbero fissato istanti rossicci di vacanze e barricate. Psst! – gli balbetterà ad un orecchio – appena incontri una cabina telefonica, prova a buttarti nella fessura, ché magari il meccanismo si fa fregare e tu riesci a telefonarci, anche solo per uno squillo, per raccontarci come va.
Che numero devi comporre, vuoi sapere? Beh, è molto semplice, te lo scrivo qui: 059799406.

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