Dove finiscono i
numeri di telefono fisso che scompaiono all’improvviso?
Dove si accatastano,
dismesse, tutte quelle cose che non si toccano ma dalle quali siamo presi per
mano, giorno dopo giorno, e accuditi lietamente nei nostri bisogni primari?
I numeri del telefono
fisso; gli indirizzi delle case di montagna; le prime giornate di sole della
primavera (quando viene l’inverno) e i bagliori della città notturna dietro
alle rassicuranti imposte (quando torna il mattino); le canzoni dentro alle
musicassette, l’appello di una classe ormai promossa, il profumo del maglione
di un amico, si riuniscono per caso tutti insieme?
Ariosto amava pensare
alla Luna, come méta di tutto ciò che sulla terra, quotidianamente, si perde: e
allora anche io, oggi, mi accodo a lui, aggiugendo a quel quadro extraterrestre
un angolino speciale.
Dietro alla faccia
della Luna che l’uomo vede ogni notte, infatti, secondo me c’è una mite
montagnetta che accoglie, sopra di sé, quello che ha vissuto sulla terra senza
mai essere vivo e che, ad un certo punto, semplicemente non ci è stato più.
Il thè è la bevanda
che tutti sorseggiano – seduti per terra taluni, sopra ad un telo i più
previdenti – mentre con la nostalgia prudente di chi chiude la porta per sempre
rievocano i momenti più gloriosi del loro essere là. Gite scolastiche, crisi di
nervi, feste a sorpresa sono i più raccontati, ciascuno alla propria maniera,
dal proprio invisibile punto di
vista, mentre buoni e silenti gli altri inghiottono liquido caldo annuendo
avveduti.
Ma ai piedi di quella
montagnetta serafica, poco lontano dal cerchio pacato delle cose che hanno
vissuto senza vita, si agita incerto un altro grumo di idee. Ha avuto poco
tempo per rendersene conto, ed è per questo che si aggira inquieto senza osare
interrompere il ritornello sottovoce dei non
più seduti in cerchio, di cui pure avrebbe così tanto bisogno.
È il mucchietto delle
cose che dal perenne oblio stanno per essere riagganciate alla mente
dell’esistenza: così, senza apparente motivo, con la stessa imperscrutabile
armonia che ha reciso quel filo telefonico e trasferito il collega lontano.
Sono le parole delle canzoni in inglese che tutto ad un tratto qualcuno
riconosce, sgranandole dal baccello dei suoni indistinti, dopo aver riascoltato
quel brano in ogni spazio e in ogni tempo; sono la margherita che sbatte la
testa contro il cemento, tante e tante volte, e solo quando ha salutato per
sempre le proprie radici riesce a fare capolino al margine del marciapiede;
sono una lettera d’amore nella bottiglia, approdata e letta anni dopo il
matrimonio, l’orchidea rifiorita in soffitta, la moneta in lire ritrovata
nell’era euro. Sono tutte le cose dimenticate prima ancora di prendere il via,
e che ad un tratto, chissà perché, tornano alla mente. Ma come potranno tornare alla mente, loro che in una
mente non sono mai state? Come sapranno orientarsi per strada, chiedere aiuto,
trovare la casa? Il tempo stringe e la chiamata è imperiosa: non resta loro che
farsi coraggio, e bussare nervose alla cima della montagna mite, dietro a
quella faccia di Luna che l’uomo – che le aspetta senza saperlo – vede ogni
notte.
È permesso? – chiederanno titubanti senza regolare il proprio tono di voce sul
soffuso chiacchiericcio dei mai più –
avremmo bisogno di voi.
E i numeri di
telefono, allora, gireranno i loro colli così fissi verso quelle voci tanto più squillanti delle loro, e
sbigottiti ritroveranno il sapore delle dita sui tasti a comporre proprio il
loro prefisso. Bisogno di noi? Davvero?
Di fronte a quelle
paia di occhi sgranati, a quel silenzio curioso, a quelle tazze di thè protese
e ricolme, tutte le idee morte sul nascere sentiranno improvvisamente
intorpidirsi le loro dita di vita. Chiederanno allora consigli, strade, indirizzi,
recapiti. Solleciteranno suggerimenti, accoglieranno storie esemplari. Passerà
così tutta la notte, mentre gli uomini, laggiù, ammireranno stolti la parte
sbagliata della Luna, senza immaginare che, lontano lontano, qualcuno prepara
per loro sorprese ed arrivi.
E giungerà il mattino;
e le margherite, le parole delle canzoni inglesi, le orchidee e le bottiglie si
metteranno tutte in fila, pronte e sagge, per il nuovo viaggio che le attende.
Ma la moneta da duecento
lire, ultima arrivata della schiera, ritardataria nel suo rotolare gentile, si
accorgerà per prima che qualcosa non va. Un mormorio diffuso, un rumore bianco
di sospiri, odore di lacrime. Qualcuno, da qualche parte, sta soffrendo.
E rotolando dolce
verso un fossato, ai piedi di quella montagnetta mite, troverà qualcosa che,
fino ad allora – come tanti, come tutti – nessuno aveva notato.
Perché sulla Luna non
ci sono solo le cose che l’uomo perde, quaggiù – come raccontava Ariosto; non
ci arrivano soltanto i vecchi numeri di telefono dismessi; non si accumulano,
in attesa di ripartenza, unicamente le idee che tornano senza essere mai
salpate. No. Ci sono anche, ben nascoste per la vergogna dentro un fossato ai
piedi del monte, tutte le cose che non sono mai nate, non hanno mai vissuto e
che la speranza di esistere ha abbandonato definitivamente. Ci sono gli amori
impossibili, le tracce dei CD che non vengono masterizzate (quelle che il
lettore dopo un secondo salta e passa automaticamente alla canzone successiva),
i treni annullati, i rullini che hanno preso luce, le parole mai arrivate a
destinazione (non ascoltate, non digitate, non pronunciate): un profluvio di
participi passati accompagna inesorabile queste anime secche, senza un prima né
un poi da raccontare al vicino. Ed è per questo che piangono lacrime asciutte
ogni volta che un nuovo treno di canzoni inglesi e monete fuori commercio salpa
esultante verso il nostro pianeta. Piangono, sospirano, lamentano. E restano
lì, nel loro fossato perdente.
Da lì, da quel fossato
perdente, hanno visto arrivare i primi numeri di telefono fisso, quando i
cellulari hanno cominciato a bussare prepotenti alle vite degli uomini, hanno
assistito alla colonizzazione delle musiche su disco, prima, e su nastro, poi;
erano già lì quando è volato sulla Luna il senno di Orlando e si sono nascoste
bene, quando Astolfo è arrivato a cercarlo. Gli
amori impossibili non finiscono mai – ha detto qualcuno: e chi è stato
sulla Luna aggiunge che non finiscono mai di piangere secchi, lassù, osservando
ogni giorno arrivi e ripartenze, aridi ma tenaci.
Finché, un giorno (quel giorno), la monetina da duecento
lire li scoprirà gementi e, in barba al suo ritardo sugli orari di avviamento,
si chiederà se non sia il caso – vista la loro lunga esperienza di osservatori
– di porgere anche agli amori impossibili qualche domanda pratica. Che cosa ne pensano, loro, del suo programma?
Quante monete hanno visto arrivare, nei secoli, spogliate di ogni bene, prima
che ci pensassero archeologi e collezionisti a regalar loro una nuova casa? Meglio
fare come i sesterzi o come i franchi? Come scegliere il nuovo padrone?
E sentendosi
apostrofare per la prima volta in vita loro, sferzati da quella curiosità così
aliena, gli abitanti del fossato senza speranza si stringeranno prima nelle
spalle, si guarderanno poi attorno circospetti, e infine, con lo sguardo verso
il proprio ombelico, si chineranno su di sé. Per accorgersi che, in tanti
secoli di partenze e abbandoni, a forza di vegliare su nascite e morti, proprio
in mezzo a quel rumore bianco di sofferenza ovattata sono riusciti ad
accogliere e ascoltare più di chiunque altro, sulla Luna.
La monetina da duecento
lire si metterà dunque a rimbalzare tra un amore impossibile e una traccia mp3,
raccogliendo qua e là preziosi frammenti di affetto e di cura, dimenticati ed
incrostati laggiù, sul fondo del fossato, in partenze troppo frettolose e
arrivi eccessivamente melanconici, lungo tutti questi anni. Per salutarla, alla
fine, lei che per prima e sola avrà intuito la loro antica ricchezza, si alzeranno
tutti – anche se a fatica, anche in mezzo a rinsecchiti reumatismi – e
raggiungeranno il resto della ciurma sulla cima della montagnetta mite, sempre
invisibile agli occhi umani che scrutano la Luna senza trovarle il senso.
L’ultimo consiglio, il
più prezioso, sarà però di un decrepito rullino degli anni settanta, di quelli
che – se non avesse incontrato la luce – avrebbero fissato istanti rossicci di
vacanze e barricate. Psst! – gli
balbetterà ad un orecchio – appena
incontri una cabina telefonica, prova a buttarti nella fessura, ché magari il
meccanismo si fa fregare e tu riesci a telefonarci, anche solo per uno squillo,
per raccontarci come va.
Che numero devi comporre, vuoi sapere? Beh, è
molto semplice, te lo scrivo qui: 059799406.
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