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lunedì 18 ottobre 2010

Ce l'ho fatta,

ce l'ho fatta, c-e l-'h-o f-a-t-t-a! Dopo due rinnovi di prestito in biblioteca, due mesi di concentrazione e nessun viaggio in treno ad aiutarmi, ho finito Underworld di Delillo. E adesso vi sparate la recensione, o meglio le riflessioni che mi hanno stimolato queste 880 pagine. Tiè.
E' un bel libro, sì. Gli ho dato quattro stellette in Anobii per penalizzare un poco la mancata scorrevolezza di alcuni passi, ma del resto sarebbe stato come chiedere la suspence ad un salmo della Bibbia. Underworld non è un libro che ti tiene incollato, o perlomeno non sempre; il paragone più immediato che mi viene da fare è con Proust: un libro da assaporare, da gustare a pillole quotidiane, e per questo poco adatto da prendere in prestito in biblioteca (per sapere come mai invece io l'ho preso a prestito vi rimando alle prime righe di questo). Nascoste qua e là in mezzo alla fitta trama di personaggi (questa pagina confesso di averla consultata almeno un paio di volte), infatti, ci sono incredibili descrizioni di realtà quotidiane, sensazioni concrete, tipi umani, generi di relazioni, che lasciano sbalorditi per la loro esattezza, pertinenza, e fulminea verità. I personaggi sono molto ben delineati, in un percorso progressivo, all'indietro nel tempo, che porta il lettore a scavare nelle loro vite e a comprenderli a fondo. Meriterebbe quasi di essere riletto da capo, ora che ho capito chi è davvero Nick Shay o che tipo di vita faceva Klara Sax prima di divorziare. (e con questo vi ho dato la prova che almeno un po' l'ho letto per davvero, come si faceva alle scuole medie nel redigere il famigerato riassunto di un libro per le vacanze mai aperto). Ma visto che vorrei leggere anche altri libri da qui alla fine dell'anno e non ho intenzione di essere bandita per sempre dal prestito in Sala borsa, credo rimanderò questa seppur attraente possibilità ad un secondo momento.
Underworld ti fa riflettere sulle contraddizioni della vita post-moderna (non che io abbia capito fino in fondo l'esatto significato di questa etichetta che va tanto di moda, anche perché al corso di lingua inglese della triennale che trattava questo tema non mi sono mai presentata, accidentiame, ma mi sembra che calzi bene con il contenuto di questo libro), oddio, non sempre-sempre, perché a volte ti viene anche voglia di saltare qualche pagina, ma se si è della predisposizione umorale giusta, è un buon trampolino di lancio.
Non c'è una vera e propria trama, sono più che altro quadri affiancati di cui si capiscono i nessi reciproci solo dopo un po', in esaltanti momenti di ahhhhh, ecco allora perché mi ha fatto quella pappardella su X, perché è il primo marito di Y!!!; il linguaggio è piacevole e mimetico, peccato solo che, essendo il libro ambientato in gran parte in una zona del Bronx abitata da immigrati italiani, molte parole dialettali o espressive erano in italiano anche nell'originale (segnalate da nota e corsivo), e nella nostra traduzione si perde un po' quell'effetto polifonico e dissonante che doveva esserci nell'inglese.
In fin dei conti, seppur un poco affaticata, sono contenta di avercela fatta.
Adesso mi premierò con la lettura del Circolo Pickwick...non l'ho mai letto e mi ispira un sacco. Incrociamo le dita e, un, due, tre, via con il prestito in biblioteca!

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