Sempre odiato gli ospedali, io. E mai trovato, del resto, qualcuno che non ammettesse - fatta eccezione per gli amici che ci lavorano - di odiarli pure lui, gli ospedali. Come si fa a non odiare un luogo dove, tra te che arrivi con un bisogno e chi è preposto a soddisfare tale bisogno esiste una barriera freddamente invalicabile?
Il camice bianco tira una linea dritta e severa che a nessuno è mai stato dato di superare: da una parte chi aspetta, dall'altra chi corre; da una parte chi sa, dall'altra chi chiede.
E così anche io faccio parte della categoria nutritissima di chi detesta cordialmente ospedali e annessi. Come ogni essere facente parte della categoria, però, anche io sono chiamata, periodicamente, ad affrontare la mia angosciante repulsione faccia a faccia, a penetrare quelle mura asetticamente bianche, a perdermi ogni volta in un labirinto di cartelli, numeretti, code, sportelli, scale, sottoscale e reparti e a somministrarmi, strizzando gli occhi e deglutendo a fatica, questo saltuario sciroppo cattivo, nella vana speranza, ogni volta, che sia l'ultimo cucchiaio.
In particolar modo, esiste una sottospecie di sciroppo ospedaliero peculiarmente amara da ingerire, e si chiama visita di controllo.
Tutti ostentano sicurezza, ma sotto sotto tremano, di fronte alla visita di controllo; generalmente si tratta di persone che l'hanno scampata bella, che ce l'hanno fatta, che hanno superato con le loro gambe una montagna, piccola o grande che sia, e per un lungo periodo hanno guardato il mondo dall'alto di quella conquista respirando finalmente a pieni polmoni. Ma alla fine di una montagna ce n'è sempre un'altra da scalare. Magari più piccola, magari meno ripida. E si finisce tutti, prima o poi, a scalare quella della visita di controllo.
E così ci si ritrova lì, io e mia madre, l'una a braccetto dell'altra, piccole piccole di fronte ai palazzoni minacciosi del Policlinico, e non si sa bene chi delle due sostenga l'altra, mentre saliamo le scale verso il reparto di oculistica e incrociamo vari esemplari della specie aliena dei camice-dotati che chiacchierano amabilmente del film visto all'estivo la sera prima.
E non è che ci sia così caldo, per essere ai primissimi di agosto, eppure la sento pressante, la fatica del contatto tra le mie e le sue braccia, una fatica che non è data dal sudore e nemmeno dalla stanchezza: è la fatica del dolore e della paura, e soprattutto la fatica di chi li accompagna, questi sentimenti, di chi è lì ma vorrebbe essere altrove, di chi non ha bisogno di quella dannata visita di controllo, di chi, una volta tanto nella vita, è chiamato ad essere figlio.
E si susseguono, come previsto, le code (brevi, ché siamo ad agosto), i numeretti e gli sportelli; e si passa accanto alla sofferenza degli Altri, si intravedono lacrime, uomini piegati su un letto da una forza inspiegabile, notizie brutte e notizie meno brutte, bambini che corrono ignari per corridoi tirati a lucido da chissà quali signore delle pulizie che magari, la mattina dopo, tornano lì a trovare il fratello. E si arriva al nostro posto.
Si ascoltano disgrazie e disavventure, si sente la vicina di sedia raccontare con accento locale di operazioni riuscite o meno riuscite, e si cerca di volare altrove, di staccare le orecchie, di immergersi in una dimensione enne, ma poi esce l'infermiera e ti strappa dal tuo tanto faticosamente agognato torpore. Esce l'infermiera, si porta via tua madre, e poi te la restituisce, improvvisamente debole, improvvisamente figlia, improvvisamente fragile.
E ancora ci si risiede sulle sedie, ad aspettare, accanto alla donna con accento locale che racconta l'ennesima complicazione post-operazione, io e mia madre, l'una a fianco dell'altra. E di nuovo, fortissima, la sensazione di fatica: di fatica per un dolore che non si sente eppure è lì, per una paura che non si vede ma c'è, per un'angoscia che non ha parole ma grida.
E l'unica cosa che sono in grado di fare è accostare la mia spalla alla sua. Niente altro, solo quello, ché la maledetta fatica mi schiaccia e non mi lascia via di scampo.
Il tempo scorre, e poi l'infermiera esce di nuovo, pendolo di un orologio inappellabile, e questa volta porta con sé una grande busta bianca. Si prende in mano la busta e lì dentro c'è la risposta, chiara, limpida, forte. Così forte che all'inizio fa un poco soggezione, e quasi quasi la mettiamo via e la facciamo vedere direttamente al dottore a casa, tanto noi forse non si capisce quel linguaggio complicato.
Quasi quasi la mettiamo via e intanto accompagno mia madre al bagno, e le devo fare la guardia davanti alla porta perché già l'ospedale è un posto terribile di umiliazioni silenziose, ci mancava solo che il bagno non avesse la chiave, mi sembra proprio quello che ci vuole; e mentre aspetto dietro la porta che non si chiude a chiave, allora la mia mano destra estrae da sola la busta grande, bianca, limpida dalla borsa, e senza che io le dica niente tira fuori il foglio da dentro la busta e chiede agli occhi di leggerlo, così, per sapere come è andata la visita di controllo.
Ed è allora che i miei occhi individuano subito quella parola, quel monosillabo che, come disse qualcuno una volta, normalmente ci dà tanto fastidio ma in certi casi diventa vitale e bellissimo ed entusiasmante e positivo. Non sono presenti e bla bla bla bla.
E quando mia madre esce dal bagno, basta uno sguardo a quel monosillabo e tutto, d'improvviso, ritorna com'era. Quelle quattro mura ritornano quattro mura vecchiotte ma dipinte di fresco, le scale ritornano scale, i passi ritornano passi, lei ed io ritorniamo madre e figlia. Quel monosillabo lava via tutto.
Tutto, sì, o quasi. Il monosillabo ha lavato via tante cose, è vero, ma non riesce a lavare quella dannatissima fatica, quella fatica di fare qualunque altra cosa che non fosse avvicinare la mia spalla alla sua. E allora sorrido, mentre si torna alla macchina l'una a braccetto dell'altra, ma non posso impedirmi di ripensare alla fatica e di buttare uno sguardo indietro e, in fondo, di trovarmi a sperare che, chissà, alla prossima visita di controllo forse saprò fare di più.
è incredibile come si riesca a sopportare la fatica, anche quando nessuno ci ha insegnato a farlo...
RispondiEliminaGli ospedali sono proprio un brutto posto, Tinni: ti preferisco immaginare altrove.
Un bacino.
li odio anch'io!!
RispondiEliminaHo letto la tua riflessione sugli ospedali e sulla sofferenza e sul disagio che ci si carica sulle spalle per il solo fatto di frequentarli a vario titolo.
RispondiEliminaE dopo il tuo chiederti se la prossima volta si potrà fare di più mi è venuto in mente un dialogo intenso di uno dei miei film preferiti, "Starman", con attore protagonista Jeff Bridges di qualche anno fa.
Questo dialogo nel film diceva:
"Shall I tell what I found beautiful about you?
You are acting at the very best when things are at their worst".
Per chi dovesse essere a digiuno della lingua inglese potrebbe voler dire: "Posso dirti cosa io trovo bello su di voi? Voi (gli umani) agite al vostro massimo quando le cose sono al loro infimo".
Forse questo pensiero vale in modo particolare per la nazionalità italiana. Forse per questo in caso di estrema necessità sapremo trovare con semplicità il nostro meglio, il nostro lato migliore.
Marco
http://www.youtube.com/watch?v=vWViXrGQdvk&feature=related
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Bellissima riflessione, caro Marco, e dolorosamente vera. In fondo, c'è da esserne fieri!
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