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venerdì 16 dicembre 2011

Affezionarsi

Quando vado a Bologna e non ho impegni che mi obblighino a tracciare percorsi ed orari di punta, da quando ho una macchina tutta mia ho cominciato a prendere l'abitudine di arrivare fino alle porte della città in auto e di parcheggiare al parcheggio del cimitero Certosa e poi prendere l'autobus diciannove fino in centro.
All'inizio la cosa è nata come un esperimento, provo oggi ma domani vado in treno, e poi no ancora anche oggi speriamo di non beccare traffico e poi ancora anche domani che tanto comincio alle undici e alla fine sono due settimane che, ogni giorno, arrivo al cimitero Certosa, cerco parcheggio, provo ad entrare in qualche buco troppo stretto, penso certo che quello con la punto blu poteva parcheggiare un po' meglio e ci stavamo in due, trovo il mio spazietto, chiudo lo sportello, cammino fino alla fermata e incrocio le dita che il diciannove sia di quelli doppi così il posto a sedere lo trovo di sicuro. E poi, la sera, quando a farmi compagnia ci sono soprattutto i morsi della fame, le occhiaie e, una volta, un ragazzo buffo con un fortissimo accento bolognese che si è messo a ridere nel sorprendermi a sbadigliare rumorosamente mentre anche lui faceva lo stesso, sono due settimane che scendo dall'autobus, aspetto pazientemente che il semaforo pedonale diventi verde, calpesto l'erba che separa la strada dal parcheggio ed è sempre bagnata anche quando non è piovuto, passo davanti a tutti quei buchi che la mattina erano macchine in fila e finalmente arrivo al posticino tutto mio, dove la panda rossa mi aspetta sempre, fedele.

E di tutto questo mi rendevo conto in particolar modo proprio stamattina, che è stata l'ultima mattina di due settimane di tirocinio a Bologna e che ha chiuso quindici giorni fitti fitti ma bellissimi. Me ne sono resa conto mentre trovavo per quella che probabilmente era l'ultima volta il mio buchetto tra un'auto e l'altra, e guardavo le signore con i fiori in mano dirigersi verso l'ingresso del cimitero e cercavo come sempre di evitare di schiantare una ruota contro quelle orribili recinzioni per gli alberi che sono proprio dell'altezza giusta per non essere viste da uno che parcheggia.
E mi sono detta mi mancherà.

Perché finisce sempre che ti ci affezioni, alle cose. E non solo alla classe di italiano L2 con la giapponese adorabile e l'americano sanguigno e l'inglese delizioso. E non solo ai compagni di una fatica che sembrava non dover mai finire, o al gelataio della pausa di metà pomeriggio in piazza santo Stefano. Non solo alle persone, ma proprio alle cose, alle entità.

Io, alla fine, mi affeziono sempre. Mi affeziono ai parcheggi davanti ai cimiteri, ai posticini a sedere in fondo agli autobus doppi. Mi affeziono alle cose più sceme, come alle successioni delle canzoni nei cd, o agli schermi dei cellulari in bianco e nero. Mi affeziono, mi lego, e me ne accorgo - banalmente - proprio quando sono ad un pelo dal dovermene andare, o nell'attimo dopo in cui ho detto loro addio.

E mi affeziono pure alle cose brutte: alle orribili recinzioni per gli alberi contro le quali una volta o l'altra segnerò la carrozzeria, al fastidio che ti arreca uno stivale lungo la caviglia del piede destro quando sbatte contro il calzino, alla manica di una camicia senza un bottone (con i vestiti, poi, è quasi peggio che con le persone vere. Continuo da anni ad indossare scarpe bucate o maglioni che puzzano dopo le prime due ore perché mi accorgo di voler loro bene, ma per davvero, come ad esseri dotati di personalità, ma di questo parlerò meglio un giorno, in futuro).

Mi affeziono ai ninnoli, alle biro, ai tappi per le orecchie dei tempi di Parigi, e quando queste cose se ne vanno dalla mia vita sento ogni volta quel fastidio buono che assomiglia un po' al brivido che si prova quando ti strappi un singolo capello dalla testa. Che pensi sempre cosa vuoi mai che senta e invece tic un po' di dolore misto a soddisfazione lo provi sempre. E ti accorgi che dietro a quelle cose c'era un filo e che adesso qualcuno lo ha tagliato via.

E stasera per le strade di Bologna tirava un vento bizzarro, di quei venti strampalati e violenti che fanno ondeggiare le luminarie di Natale e sbattono le imposte e sollevano le foglie in mulinelli; di quei venti che incutono insieme paura e rispetto, ansia ed energia, che bloccano e rallegrano. Quei venti prepotenti e buoni.
E quel vento pareva venuto apposta a portare via Jeff l'inglese e Ciemi la cantante lirica del Giappone e i cappuccini dopo le dieci con John del Colorado e i cruciverba a punti in classe; a spazzare fuori i parcheggi alla Certosa e le signore placide e compunte con i fiori. Eppure non riuscivo ad essere triste; perché il vento ripuliva e sfrondava e cacciava.
Ma finché ci saranno capelli che fanno male quando vengono strappati, finché ci sarà quel fastidio buono e quel tic che tutte le volte fa lo stesso male, bhe, mi veniva da pensare, finché ci saranno foglie spazzate via dal vento ci saranno anche foglie portate dal vento. E il viaggio, grazie a quelle foglie, sarà ancora una volta una piacevole abitudine.

2 commenti:

  1. Vedi, le storie che hanno uno scenario che non è Milano hanno un fondo di ottimismo. Soprattutto a Bologna.

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  2. Sì, Bologna è proprio una città ottimista. Non conosco affatto Milano, però, quindi non posso esprimermi in merito. E' davvero così triste come alcuni la descrivono?

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