Se mi avessero detto, qualche tempo fa, che c’era qualcosa
più pungente del Dolore, più arrabbiato, più stancante; qualcosa che ti
logorava in modo diverso eppure straziante, qualcos’altro senza apparente via
d’uscita; se me lo avessero detto qualche tempo fa, mentre io annaspavo in una
sofferenza nuova e multiforme e mi pareva – a tratti, a piccolissimi ma
resistentissimi tratti – che non sarei mai più tornata a riva, probabilmente
avrei scosso la mia testa bionda e voltato le mie spalle un po’ ingobbite e mi
sarei rificcata le cuffiette dell’mp3 nelle orecchie per proseguire il mio
cammino contro vento, un cammino solitario e coraggioso che, mesi dopo, mi
avrebbe portato, più donna, fin qua.
Ma dopo aver toccato terra e aver gridato vittoria –
assaporandone cicatrici e macchie di sudore e mostrandole con fierezza anche a
tutti voi che, nel vostro silenzio buono, mi avete accompagnato fin qui – oggi
mi ritrovo, incredula e inebetita, di fronte ad una nuova, frastornante,
verità.
Sì, perché c’è qualcosa di più pungente del Dolore, di più
arrabbiato e di più stancante.
Ed è il Dolore Altrui.
E se mi sforzo di costruire un castello di immagini per disegnare
il Dolore Altrui e per dispiegarlo
nell’ordine bianco e nero di questa pagina, mi viene in mente un viaggio in
treno – e non in un treno qualsiasi, ma in un treno lurido e disprezzabile come
solo certi Intercity di vecchia
generazione sanno essere. Un viaggio su di un Intercity logoro e strapieno verso sud, dove ti aspetta qualcuno alla stazione, un viaggio in
uno scompartimento da sei con il sudore delle spalle che ti appiccica alla
stoffa consunta e ruvida dei sedili blu, un viaggio con il mal di testa e con
la pipì, un viaggio dove vorresti semplicemente arrivare, prima o poi, ma che, senza nemmeno i premurosi annunci
vocali a cui ha diritto soltanto il primo
stato dei Frecciarossa, si risolve in un’attesa infinita e senza senso;
fatta di piccoli ed inutili movimenti interrotti; fatta di stazioni fantasma
dove ci si ferma anche se non sale nessuno; fatta di finestrini rotti e di
speranze intessute e disfatte.
Il Dolore Altrui
mi pare un po’ così, oggi, al termine e nel contempo all’inizio di un sentiero
sul quale, con o contro il mio consenso, mi ritroverò a vagabondare per qualche
tempo: come quei viaggi di ritardi epici e sommati infinitamente l’uno
sull’altro, come un Bologna-Roma in intercity carrozza sei scompartimento
otto posto sessantaquattro.
Perché il Dolore
Altrui non ti frega con le sue urla o con i suoi schiaffi impertinenti, ché
in fin dei conti puoi sempre massaggiarti la guancia dolorante e rialzarti e
restituirgliene il doppio, con buona pace del principio evangelico. No; il Dolore Altrui non ferisce né spintona;
non picchia né sputa. Lascia ampi margini di autonomia e non crea alcuna
emorragia, sicché agli sguardi esterni si è spesso impeccabili, forse giusto un’occhiaia un po’ più fonda del normale
che basta un colpetto di fondotinta. Però il Dolore Altrui è come un treno che zoppica senza apparente motivo
mentre le lancette del tuo orologio corrono, e non c’è proprio modo di
riallinearli. C’è un latente e sotterraneo fastidio ansioso che cova e monta e
annebbia lo sguardo. C’è un senso di impotenza
che soffoca e inquieta. C’è una rabbia frustrata che non ha dove posarsi, e
alla fine, se ti fermi un attimo a pensare, ti accorgi che un pezzo di Dolore te lo stai divorando anche tu e
allora vorresti alzare la bandierina bianca e dire aiuto! ma le bandierine le hanno finite e al massimo possiamo darle
un fazzolettino di carta, di quelli profumati con i disegni Disney. Le bandierine, cara mia, le
hanno finite perché, anche nel Dolore,
è una questione di precedenze e di diritti, e il tuo mucchietto di
sofferenza scompare di fronte al cumulo di Dolore
Altrui, quindi per favore mettiti in fila e se non hai voglia di aspettare
la porta è quella là.
E allora, un po’ offesa, provi a ripercorrere all’indietro
il treno traballante, superando anche la tua congenita paura per i passaggi
oscuri e puzzolenti tra una carrozza e l’altra, e ti sei messa in testa che vai
fino in cima dal capotreno e lo aiuti a capire cosa c’è che non va e dai il tuo
contributo socialmente utile alla situazione e magari tutto si risolve, basta
solo un po’ di buona volontà. Ma
credo immaginiate tutti cosa succede quando si arriva davanti alla porta del
capotreno. La porta è chiusa e nessuno risponde, quando si bussa, prima piano e
poi sempre più imperiosamente.
E il treno è sempre fermo e no aspetta forse riparte ma dopo pochi metri è in frenata di nuovo,
e quel qualcuno, laggiù a Termini,
probabilmente si è rotto le palle di
aspettarti – ché nel mio castello di immagini i cellulari ancora non esistono e
non c’è modo di avvisarlo – e il Dolore
Altrui è proprio stronzo così, ti
fa venir voglia di tirare capocciate al vetro o di romperlo con quel benedetto
martelletto anti panico, ma sarebbe solo peggio perché si aggiungerebbe un
ulteriore disagio alla corsa lenta verso la méta, e non resta altro che sedersi
e aspettare.
Non resta altro che sedersi di nuovo nelle poltrone consunte
e umide, alzare magari lo sguardo per rifugiarsi qualche istante nell’intesa e
nella complicità dei compagni di scompartimento, ascoltare qualche storia o
qualche avventura altrui per tappare i buchi di quello spazio dilatato, trovare
un buon libro e forse finisce pure che se guardi la signora napoletana con
un’aria tenera ti offrirà anche un pezzettino della sua pastiera, oh sì grazie ne accetto un morso volentieri,
accidenti è buonissima l’ha fatta lei?
Non resta altro che sedersi nelle poltrone blu dell’intercity in viaggio verso sud,
accoccolandosi nonostante il ruvido della stoffa, e concentrarsi su quel qualcuno che, forse, laggiù a Termini,
aspetta come te e ha deciso di portare pazienza anche lui, sul tabellone i
numeri del ritardo stanno arrivando ad avere tre cifre, ma prima o poi quel dannato treno dovrà arrivare a
destinazione, echeccavolo. Forse, se
ci pensi intensamente e chiudi gli occhi e strizzi le rughe della fronte,
riesci a convincerlo a distanza che è
solo questione di tempo, che sei già praticamente a Orte solo che c’è un
bastardo di regionale che è deragliato e devono venire con una motrice nuova a
portarlo via; forse riesci addirittura a spiegargli che se scende nel
sotterraneo della stazione c’è un buon ristorantino orientale dove può mangiare
qualcosa, e sembra che abbiano aperto anche una nuova libreria, magari può
farci un salto per ingannare l’attesa (come
se la si potesse fregare, poi, quella maledetta).
E, proprio mentre sei lì con la fronte aggrottata che ti
sforzi per comunicare a distanza, la signora napoletana al tuo fianco sorride
paciosa e dal morbido del suo doppio mento ti chiede e a lei, signorina, qualcuno la viene a pigliare, in stazione?
Ed è lì, nel rispondere con un titubante ed incerto sì, lo
spero, che il grumino piccolo piccolo di Dolore quasi all’improvviso si scioglie nello stomaco e scende giù
verso l’intestino insieme a tutto il resto. Il grumo puntuto si scioglie e si
rilassa e il treno, oplà, riparte, un
po’ più convinto delle altre volte, e il Dolore per il Dolore Altrui si attenua e se ne va di là in camera a dormire per qualche ora;
finisce che a te resta in mano solo l’Altrui.
E Altrui, di
questi tempi, non è certo una malvagia parola, con cui trascorrere le ultime
ore di viaggio, tra Orte e Termini. Di certo meglio che un paio di auricolari di mp3.
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