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domenica 29 aprile 2012

Vivere soli

Che poi, se ti chiedessero perché è così esaltante andare a vivere tutti soli, forse nemmeno sapresti esattamente cosa rispondere.
Non sai esattamente, infatti, se è più - e questa è la risposta che di solito si dà agli amici che ancora dividono le quattro pareti di casa coi genitori - il fatto di poter cenare alle dieciemezza con un toast sbruciacchiato mentre guardi un film al computer e andare a letto vestito puntando la sveglia alle sei per rimandare qualunque incombenza, foss'anche la doccia, alla mattina dopo. Se, insomma, è davvero la questione dell'autogestione a rappresentare la chiave di questa euforia leggera e sottile che non mi molla più, da dieci giorni a questa parte. Non so, forse l'autogestione è più un miraggio da scuola superiore, in realtà.

Allora forse è il brivido del comando e della scelta: il fatto che - di fronte ad un universo in completo e perenne disordine, di fronte ad una vita in cui ogni filo sembra in mano ad altri, sempre - almeno il colore dei tappetini del bagno sarà sempre e confortantemente in pugno a te; che al di là di crisi governo tennico bandi concorsi e orari dei treni, beh, l'ordine in cui disporre i libri sulla Billy sarai tu a deciderlo, e se ti andrà di infilarli sulla base della seconda lettera del cognome dell'autore, ben venga, nessuno potrà fiatare. Ma il potere, da che mondo è mondo, di solito regala grandi esaltazioni, sì, ma di breve durata: non mi pare, insomma, che possa essere lui il responsabile del sole che filtra dalla finestra di questa cucina e mi innaffia come una piantina esaltata e sorridente.

Puoi invitare chi vuoi, è vero; puoi ospitare la notte - e questo è quello che mi ripete sempre il mio amico Flavio, che è un po' fissato con il sesso, garantisce che le sue avventure sentimentali (e non solo, ma lascio ulteriori aggettivi alla vostra fervida immaginazione) sono state notevolmente incentivate, da quando ha un letto matrimoniale tutto per sé - però è anche vero che io, qui, di letti matrimoniali ancora non ne ho, quindi, con buona pace del mio amico Flavio, non credo che assisteremo, a breve, a picchi di tal genere; puoi raggomitolarti nel letto per un giorno intero a contare quante lacrime sei in grado di versare; puoi svegliarti nel cuore della notte e farti una camomilla senza camminare in punta di piedi; puoi staccare il telefono, chiudere tutte le imposte al giorno, attaccare al muro le figurine e se si stacca l'intonaco chissenefrega (questa era la mia perversione d'infanzia più ricorrente, ma ho come l'impressione che non lo farò, anche se ora ho una distesa d'intonaco bianco tutta per me), mangiare nel letto sbriciolando dappertutto, prendere un pesce rosso.

Ma soprattutto - e adesso arrivo a quello che, dopo dieci giorni di riflessione, mi sembra davvero il punto cruciale - puoi parlare da sola.

Ché io, prima, quando arrivavo a casa dopo una giornata di eventi interni ed esterni, proprio non ce la facevo, a sedermi a tavola e a non vuotare il sacco proprio lì, davanti al mio piatto di minestra; proprio non ce la facevo a non raccontare tutto per filo e per segno e a chiedere consigli e a puntare i piedi quando i consigli non erano belli e a rivivere tutto, scena dopo scena, a beneficio di quei due personaggi silenziosi ed attenti che dividevano la tavola con me. Lo facevo ogni sera o quasi e poi, a minestra finita, tornavo in camera mia e accendevo il pc e volevo scrivere qualcosa e il più delle volte volevo scrivere proprio di quelle cose lì che avevo snocciolato tra un cucchiaio di minestra e l'altro ma poi finiva che non le trovavo più. Non c'erano più, nemmeno dietro all'armadio, nemmeno sotto al tappeto o in un angolo della borsa traboccante di oggetti e scontrini. Non c'erano più: le avevo date via.

Perché raccontare tutto e vuotare il sacco e poi rimettersi a cercare quelle cose lì senza trovarle è un po' come quando, l'altra sera in pizzeria, avevamo una partita di pasta da mezzi metri dove il lievito non era partito. Non sappiamo esattamente cosa sia successo, ma la polverina magica, là dentro, era come se non si fosse mai svegliata, e allora Giulio infornava i pezzi di pizza e quando uscivano sembravano cotti a puntino, con il bordo giusto un po' annerito come aveva chiesto il cliente, ma per fortuna che il mio principale ne ha viste tante e ne sa ancora di più, e ha allungato l'occhio in quel modo smaliziato e pure un po' preoccupato e ha curvato la pasta tra le mani e poi me ne ha fatto tagliare un pezzo e zac! - la pasta, dentro, era cruda che più cruda non si può, e allora subito mettila via di là te ne rifaccio un'altra con la pasta buona, e vaffanculo è pure sabato sera figurati se queste cose non devono capitare di weekend in mezzo al casino.

Ecco, svuotare il sacco davanti al piatto di minestra era diventato un po' come cuocere una pizza senza lievito, per me. Mi sembrava di star bene, dopo, ma dietro a quel bordo lievemente sbruciacchiato la pasta restava cruda e indigesta e anzi immangiabile e non c'era più nulla da fare, toccava buttare via tutto.

Invece, oggi, quando torno a casa la sera dopo una giornata di eventi interni ed esterni, apro la porta di casa e ho ancora un sacco di voglia di aprire il sacco e di infilare le cose una di fianco all'altra, sulla tavola della cucina. E infatti lo faccio. Ma ad ascoltare le mie storie e i miei dubbi e domande e lacrimucce ed esaltazioni sono solo e soltanto loro, i miei oggetti.

E così finisce che racconto delle mie ripetizioni al barattolo del sale grosso - che è uno stronzo e non mi ascolta mai fino in fondo, e poi continua ad appiccicarmi con i resti di un'etichetta che aveva attaccata nella sua precedente vita da barattolo di marmellata coop e mi pare un gran maleducato, quando fa così, però che vuoi farci, io gli voglio bene comunque, e poi le mie speranze amorose alla spugna dei piatti - che alterna superficie morbida e superficie dura a seconda di quanto queste speranze siano frustrate o meno, e poi ancora le ansie per il concorso del TFA al quaderno degli appunti - che promette silenzioso appoggio con le sue confortanti pagine a quadretti grandi, e gli sarò grata per sempre, e poi mille altre cosette ed esclamazioni e fierezze e frustrazioni.



Loro stanno lì, i miei oggetti, e quando lancio loro le mie parole, quelli, buoni buoni, le riflettono e me le rispediscono al mittente, specchi fedeli e muti. E così io me le ritrovo tutte, a fine serata, davanti allo schermo del pc: tutte le mie parole sono ancora lì, dentro la borsa, fuori dall'armadio, tirate a lucido e con le guance arrossate dopo una gitarella fuori porta. E posso guardarle, toccarle, accarezzarle e sdraiarmici vicino.

Ecco, sì, credo sia questo, il motivo più bello per cui da dieci giorni a questa parte sono una briciolina più felice; perché sono andata a vivere da sola, ma sola per davvero non lo sono mai.

5 commenti:

  1. Vivere da soli significa, banalmente, dare senso compiuto alle parole libertà e responsabilità. Ed è secondo me un atto sociale e individuale insieme. Che proprio per questo va compiuto esattamente come un rito ovvio. E con la consapevolezza che prima è, meglio è.

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  2. Non ci resta che ringraziarli tutti: grazie signor barattolo e grazie signora spugnetta e grazie anche al quaderno per gli appunti, a quadrettoni :-)

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  3. E grazie anche a voi, ovviamente. :)

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  4. andare a vivere da soli è una delle esperienze più belle della vita, senza dubbio.

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  5. A me dà già fastidio il tono di voce di mia madre...

    Comunque casa dei miei mantiene ancora la presenza di mio padre, per questo non potrei rimanerci.

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