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mercoledì 16 maggio 2012

Pratile

Di recente, un illustre pensatore mi faceva notare l'inequivocabile abbondanza di papaveri lungo tutti e ovunque gli italici tratti ferroviari. Ci sono sempre i papaveri, accanto ai binari dei treni - mi diceva con quel suo fare sornione e curioso, ci hai mai fatto caso?.

Il mio amico nonché illustre pensatore ha ragione.

Ci sono sempre dei papaveri lungo i binari delle ferrovie, ma non solo lì. Proprio oggi, correndo da una parte all'altra dell'Emilia ordinata e compunta, guardavo il ciglio della strada e mi accorgevo, infatti, che i papaveri - Dio li benedica, sono quasi il mio fiore preferito, dopo le margherite - se ne stanno sempre più concentrati e più fitti lungo i margini dei sentieri, e ai bordi dei campi, e dove il prato finisce e lascia il passo a qualcosa d'altro. Ci sono sempre più papaveri vicino ai fossi, e ai marciapiedi, e ai confini dei terreni che diventano distributori di metano o parcheggi. Ce ne sono di più lì, dove c'è un lungo, dove c'è un dopo, dove c'è un altrove.

Notavo questa cosa, oggi, e mi chiedevo perché e mi rispondevo, al termine di una giornata come tante altre, che dev'essere perché i papaveri sono tipi curiosi.

Sì, dev'essere proprio per questo. Perché i papaveri, se vi fermate un attimo ad osservarli senza farvi vedere, sono curiosi ed instancabili pettegoli. Stanno ai confini e lungo i binari e sul ciglio dei fossi perché si sono stancati di vedere sempre le stesse cose, nel loro campo, e di accompagnare il muto trascorrere dei minuti delle balle di fieno, sempre ferme, sempre buone, sempre modeste e sempre tranquille. Si sono stancati delle distese di erba tutte uguali e allora si sono dati appuntamento alla finestra, per vedere quel che succede al di là, per buttare un occhio a quel vagone di intercity diretto a sud, o a quel ranocchio che gracida sfrontato nello stagno, a quel pazzo in bicicletta sulla Vignolese, a quel gatto addormentato sul cemento del parcheggio. E ci si sono trovati bene, lì sui cigli.

Hanno guardato, e bevuto ogni vignetta del mondo che stava a pochi passi da loro, e riso, sorriso. E a quel punto hanno avuto voglia di raccontarlo a qualcuno. A chi raccontare del meraviglioso e mutevole oltre? A chi narrare di passeggiate innamorate su marciapiedi assolati, di fazzoletti spiegati da un finestrino, di mani agitate al vento e di odorose pompe di benzina?

I papaveri, si sa, sono sempre stati un po' innamorati delle spighe di grano. E' da tempo che pensano di essere stati messi e piantati nello stesso posto per il fatto di essere l'ideale gli uni per le altre. Ecco perché siamo nati vicini - sostengono nei lori diari segreti. Questo è il senso di tutto. Le amano perché li punzecchiano, perché si ergono fiere, perché sanno il fatto loro e non piangono mai. Le spighe di grano sono le Signore ovunque vadano, sanno camminare sui tacchi e come stanno bene a loro, le scollature dei vestiti da sera, non stanno a nessuno. I papaveri credono di essere fatti per loro fin dalla prima adolescenza, e così è a loro che decidono di raccontare del mondo al di là del confine, e corrono loro incontro con quell'irruenza candida e si siedono nella panchina lì di fianco e un due tre via, cominciano le loro storie.

Solo che le spighe di grano, quelle cose lì, le hanno già viste. Non tutte, intendiamoci - anche se a loro piace dire così perché amano fare le grandi viaggiatrici d'esperienza - ma una buona parte, quella sì. Perché anche le spighe stanno ai bordi dei campi e anche le spighe hanno il collo lungo e le orecchie fini. A loro piacciono soprattutto le storie d'amore, e sanno tutto sugli orari in cui quella coppia di automobili si incontra al benzinaio per scambiarsi un paio di baci furtivi. Sono meno informate dei papaveri sulle composizioni dei convogli e sui cartelli verdi dell'autostrada, ma per il resto, tengono loro testa.

E per di più, le spighe di grano sanno ascoltare quasi quanto conoscono l'ablativo assoluto, loro che a scuola sono sempre state promosse con il debito in latino e matematica. Si annoiano, a starsene sedute lì e ad ascoltare quegli infervorati dei papaveri che si fanno ancor più rossi al momento di spiegare con quali regole le automobili si sorpassano l'un l'altra. Non possono sfoggiare i loro tacchi ultimo modello, se rimangono sedute tutta sera, invece di scorrazzare per la festa del campo ed irradiare successo e bellezza dalle loro punte fatali.

Quante lacrime di succo bianco, di nascosto da tutto e da tutti, hanno versato i papaveri alla fine delle feste e delle lezioni e delle serate in compagnia delle tanto amate spighe. Non capivano, non riuscivano proprio a rassegnarsi. Siamo nello stesso prato - hanno pensato milioni di volte - come è possibile non essere fatti gli uni per le altre?

E dev'essere stato proprio in una sera come quelle, una sera che era già notte e la luna piena meno un pezzettino illuminava il campo di un bianco irreale, dev'essere stato in una sera di lacrime recise che i papaveri - loro che di solito, stanchi per il tanto osservare, si coricavano presto presto, pronti per zampettare  e curiosare fuori non appena fosse sorto nuovamente il sole - hanno sentito quel respiro ovattato e tranquillo provenire dal centro del prato e hanno tirato su con il naso per sentirlo un po' meglio.

Sconsolati e sconfitti si sono fatti più vicini, e, bianche e nere nel contrasto della luce lunare le hanno ritrovate lì, le balle di fieno, dopo tanto tempo che non le vedevano - ne erano passati, di mesi, dall'ultima gita di classe a sezioni riunite - , assorte e silenziose nella lettura dei loro libri lunghi e soporiferi, accucciate sui loro occhiali tondi, e concentrate, e in fondo felici come i papaveri non credevano di averle mai viste.

Si sono fatti più vicini, i papaveri, e con la voce che riemergeva roca dal pianto hanno fatto toc toc alle loro porte e hanno chiesto asciugandosi il mento che libro leggi? è bello?


Leggo un libro sulle ferrovie - ha risposto una balla di fieno al papavero che spuntava dalla sua finestra; un romanzo che parla di un ragazzo che si fa un'intera autostrada a piedi - ha bisbigliato un'altra alzando il sopracciglio dalla lente di ingrandimento; è la storia di un incontro ad una pompa di benzina - dice una balla di fieno asciugandosi una lacrima ormai secca per il caldo delle notti buone della fine di maggio. I papaveri non ci potevano credere. Davvero vi interessano queste cose? - hanno incalzato riprendendo a poco a poco la baldanza spensierata senza la quale si sentivano perduti e dimezzati. No, perché noi le abbiamo viste, le autostrade, e le pompe di benzina e le ferrovie, e anche i ranocchi e le api regine!
Le balle di fieno parevano incuriosite. Si fermavano a pensare - una balla di fieno non fa mai niente di imprevisto, nulla di impulsivo, ci pensa sempre su un paio di minuti, prima di rispondere, ma almeno così non sbaglia mai, o quasi - e lentamente appoggiavano i libri sui comodini e sui tavoli e abbassavano le lenti degli occhiali e facendosi coraggio avvicinavano i volti a quelli rossi e caldi dei papaveri e piantando quegli occhi miti nei loro sussurravano, lente, dai, raccontami.



E così, la notte, tra le undici e le tre all'incirca, da qualche mese a questa parte papaveri e balle di fieno si danno appuntamento al centro del campo per raccontarsi le loro giornate; o meglio, i papaveri raccontano e colorano e spiegano e indicano e farneticano con la voce sempre un po' troppo alta che prima o poi le piantine di gramigna si sveglieranno e si metteranno a piangere, ma tant'è, e le balle di fieno ascoltano, e chiedono, e sorridono e a volte ridono pure.

Siamo nati nello stesso campo - si legge oggi in quegli stessi diari - siamo fatti proprio gli uni per le altre.

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