MOLTEPLICI INIZI.


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giovedì 31 maggio 2012

Sull'Amicizia. Parte prima

Questo è un post sull'amicizia e temo sarà difficile portarlo a compimento in maniera brillante, ma queste idee mi frullano nella testa da parecchi giorni e combattono la loro piccola ed insignificante battaglia contro la banalità e l'aridità con tanta lena che alla fine ho deciso, in questa ora di pranzo che trema ancora e profuma di ragù, di dar loro il credito che meritano.

Perché, da un po' di tempo a questa parte, mi pare che l'amicizia, più che assomigliare ad una costruzione lego dove i mattoncini si incastrano l'uno nell'altro con il solo ausilio di incavi, protuberanze e leggere pressioni, no, l'amicizia sia piuttosto un muro di mattoni faccia a vista dove i mattoni, da soli, proprio non starebbero su; non starebbero su per più di cinque minuti, perché le impurità degli uni e degli altri creerebbero un attrito insanabile e un aspetto traballante e la forza di gravità, grande motore egoistico di ogni rapporto umano o murale, finirebbe per avere la meglio su tutte le singole, meravigliose, autonome coscienze laterizie.

Mi piace pensare, insomma, che tra il mio mattone e quello dell'amica più cara sia stato spalmato qualcosa che ha reso i nostri spigoli un centimetro più indifferenti e le nostre pareti meglio allineate; qualcosa che ha una consistenza molliccia e buffa, qualcosa con cui i bambini amano giocare e immergerci le braccia fino al gomito, qualcosa di bonario e pacifico che non gli daresti due lire, all'inizio, e che invece, dopo aver sudato e sopportato il caldo del sole e delle disavventure ed essere sopravvissuto non sa nemmeno lui bene come all'arsura dei litigi, delle euforie passeggere, delle mode, dei chilometri e delle tiranniche tariffe telefoniche, ecco che ti ha saldato insieme quei due, quei tre, quattro mattoni in un muro forse non proprio drittissimo ma solido.

Io a quella sostanza appiccicosa ma efficace ho il vezzo di dare il nome (che è un nome bellissimo, secondo me) di complicità.

La cosa triste e frustrante, però, della complicità, è che è sfuggente e molliccia anche quando la si vuole descrivere e raccontare e astrarre in un post come questo. Come si fa, a spiegarla, come si fa, ad identificarla, lei che assume ogni forma e per ogni mattone si accoccola negli interstizi giusti fino quasi a scomparire?

Spesso la complicità è inaspettata, mi viene da dire. Ci sono certe coppie di mattoni che mai avrebbero pensato di finire nella stessa fila, quando erano nel deposito e nel mucchio ammassate. E invece, ad un tratto, sono arrivate tante sere, una dopo l'altra, a parlare dentro ad una macchina a fine lavoro, e ogni sera cementava un po' di più a suon di risate (la complicità - e se c'è una cosa certa in merito è proprio questa - è  una vera comica) di gesti di morsi e di sorsi dalla stessa bottiglia d'acqua del rubinetto, che alla fine i due mattoni si sono guardati e hanno detto: eh già, si sta proprio bene, qua, su questa fila, accanto a lui (e hanno indicato il mattone a fianco, quello che un tempo era tanto diverso e strano).

A volte la complicità è drammatica, anche; e il cemento incolla con lacrime che si asciugano sulla felpa dell'altro, e abbracci, e quelle risate isteriche (quelle ci sono sempre, ve l'ho detto) che solo il dolore riesce a strappare; con salvataggi e telefonate martellanti; con cerotti prestati e mai restituiti; con messaggi dal fondo del pozzo che pur di non mandarlo a lui bombardo Giulia con qualunque informazione banale sulla mia giornata e sui miei immediati dintorni.

Altre volte, la complicità, è intermittente; poi può diventare metodica. Ci possono essere infiniti viaggi quotidiani nello stesso scompartimento di treno alla fine di una lunga giornata universitaria, oppure vacanze indimenticabili e bizzarre e assolate durate solo pochi giorni.



Però senza di lei, senza la complicità, due mattoni che si stanno simpatici e cordialmente gradevoli l'un l'altro non diventeranno mai degli amici.
Saranno sempre e solo due vicini di fila che sorridono e annuiscono e ascoltano compunti e interessati, seduti dall'altra parte del tavolo, ma che quel tavolo mai lo oltrepasserebbero - anche passandoci sotto, perché no? - per andare a mettere le braccia al collo dell'altro mattone e dirgli, in uno di quegli eccessi di glucosio che a me piacciono tanto che poi puntualmente finisco per vergognarmene, ti voglio bene.

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