Ho una casa tutta mia da nemmeno un mese e tra le tante cose
speciali uniche golose e sudate che questo regalo di indipendenza primaverile
mi ha portato mai avrei creduto di dove menzionare la notte del 19 maggio. E
invece così è stato.
E’ il primo terremoto della mia vita: nonostante mille altri
piccoli episodi locali non fossero mancati, nei miei ventotto anni di vita, io
non mi ero mai accorta di nulla, e mi beavo di questo primato sbarazzino come
di un giocattolo vecchio eppure speciale.
Dormivo della grossa, alle quattro e zero tre. Di quella
sveglia convulsa, ricordo solo la mia mano che si alza d’impulso verso
l’interruttore, il freddo controvoglia del pavimento e una forza che non so
proprio da dove si scavi strada, dentro il fondo più fondo, e che mi porta ad
alzarmi in piedi e a correre verso la porta. Ricordo anche che ho detto cazzo, cazzo. Quando si vive soli non
c’è nessuno, lì vicino a te, che ti dice
il terremoto!. Quindi hai quasi paura di essertela sognata, quella mano
invisibile che scuoteva le quattro mura della tua camera come se fosse una
scatoletta di plastica piena di fiammiferi. La prima cosa che faccio, quindi, è
accendere il cellulare e guardare su internet: la memoria di google non
tradisce; ho digitato terremoto modena.
Mi compare della scossa dell’una e deduco che siamo in mezzo ad un bel casino.
Chiamo a casa, temendo di svegliare, e la voce di mio padre mi calma e mi
agita. E’ la scossa di terremoto più
forte e più lunga che abbia mai sentito in vita mia.
Comincio con il botto, io, mica bazzecole.
Cammino avanti e indietro per la cucina e la prima, l’unica
cosa che ho voglia di fare è il ricevere contatto umano. Apro la porta di casa
e la striscia di luce sotto quella dei vicini è già qualcosa. Quasi quasi suono
il loro campanello e, senza averli ancora mai incontrati una volta, divento
loro figlia per una notte: solo per un pochino, dai, che mi passi questa paura
strana e straniante. Mio padre richiama e mi dice se vuoi stare tranquilla, mettiti sotto lo stipite di una porta o sotto
il tavolo di cucina, attaccato al muro. Ma non teniamo le linee occupate, che
serviranno più ad altri.
Ecco, allora, come ho passato il mio terremoto: accucciata sotto il tavolo di cucina, con il
portatile acceso le gambe incrociate e la schiena gobba. Come quando un milione
di anni fa giocavo a fare la tana sotto
al divano di sala e che veniva una tempesta e io mi salvavo su un’isola
deserta. Il contatto umano, mai lo avrei creduto – ed è la seconda incredulità
di questa notte accecante senza regole – mi viene da quello schermo,
illuminato. Mi metto su facebook e
non posso non ridere, quel riso assurdo che a volte è l’unico compagno che la
paura ammette al suo fianco, quasi fossero una di quelle coppie di amici che
più diversi non possono essere, eppure inseparabili; non posso non ridere
quando un amico di sempre scrive che sua nonna, ormai centenaria, è appena
uscita sul pianerottolo dicendo pacata chi
el càm scosa il lét. E poi infiniti altri volti, dietro quello schermo,
frasi, imprecazioni, battute, aiuto merda un’altra dai proviamo a ridormire un
po’, magari è finita. Molto prima di ansa,
molto prima di corriere.it, quelle
righe mi testimoniano che c’è tutto un mondo, là fuori, che suda e sobbalza e
trema; e fa un po’ meno freddo, sulle piastrelle.
Sola, e circondata; impaurita, e ridente – se provo ad
astrarre dalla drammaticità del momento, sono pur sempre una donna seduta sotto
ad un tavolo nel pavimento gelido e nel pigiama con gli angioletti rosa - ;
tremante e coraggiosa.
Passano i minuti, gli status
di feisbuk e poi le ore. La batteria del pc sta per finire: sgattaiolo
fuori dal mio nascondiglio a quattro zampe e per aggiungere surrealità alla
scenetta chiedo a voce alta al terremoto di aspettare un secondo, se vuole
scossare forte, giusto il tempo di prendere il caricatore. E’ solo allora, nel
riquadro della finestra coi fiori, che mi accorgo che l’alba, quell’alba buona
e soffice che sembra sancire la fine di ogni ostilità e terrore – come se, per
una qualche strana e bizzarra illusione d’ingegno, nella luce del giorno il
terremoto facesse meno paura, meno danni, chissà – l’alba è arrivata.
E’ l’alba e il coprifuoco è finito; sono arrivati i
soccorritori sull’isola deserta, dopo la tempesta; le amiche bolognesi on line mi dicono buona notte e allora sì, mi dico spossata e indolenzita, allora in
quest’alba che profuma di solitudine, ecco, posso provare a tornare a dormire.
(un pezzetto di questa roba la trovate anche qui,
giusto per dovere di cronaca - ché quella che scrive è amica mia)
l'importante è che tu stia bene.
RispondiEliminaChe papà saggio :-)
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