MOLTEPLICI INIZI.


A proposito di:

interculturalità - scuola - letture - frivolezze - risparmio - poesia - creatività - viaggi - pande - giardinaggio ... e bizzarrie varie.

martedì 9 ottobre 2012

Barriere

La barriera della competenza, quella è la prima a cadere. La più facile, in definitiva. Basta collezionare tre o quattro significati - magari anticipandoli loro con fare di dubbio mi pare voglia dire porta, ma controlla per sicurezza - , sciorinare qualche paradigma, usare nuove e sempre vecchie parole per spiegare regole insulse, condirle con qualche scarabocchio di schema su foglio stropicciato ed il gioco è fatto.
Sanno che sai.

Le altre, di barriere, cadono invece, più lente, una dopo l'altra, nel corso degli incontri e dei saluti e dei commiati e anche delle strofinature di piedi sugli zerbini. La barriera della comicità, per esempio - proprio ieri ne ho abbattuta una con una fulminea battuta in ingresso (come vado fiera di questi banali lampi di allegria, sono le mie piccole grandi conquiste giornaliere) oh, qui c'è un frigo, ho detto con voce ironica constatando un trasloco imminente e la presenza di un nuovo, bianco, ignorantissimo compagno di lezione in mezzo alla sala (e Benedetta ha riso, sì, nonostante la pietosità complessiva della scenetta ed il mirabolante numero di frasi dall'italiano al latino che la attendeva). Oppure quella della complicità, che si sgretola con la prima, contrattatissima, sudata ed incerta confidenza richiesta - ce l'hai, il fidanzato? per le più ardite - che squadra tifi? che ne è il corrispettivo maschile, oppure anche il semplice ma tu, quanti anni hai? (e qui non importa più la risposta, che si perde spesso tra i participi svanendo coperta dalla puzza di bianchetto, quanto piuttosto il punto interrogativo in fondo ad una frase che non avesse come oggetto grammatiche o traduzioni, e quel brandello di sorriso che mi cade sul foglio mentre biascico un no o un c'è stato un tempo in cui tifavo la Roma vale per noi più di mille colpi di piccone).

Ai piani più alti dell'edificio che costruiamo a quattro mani, poi, ci sono anche le barriere dell'autoironia, quella delle ricorrenze, quella dei piccoli pensieri extrascolastici. C'è la buffissima barriera del bagno, quando proprio non ce la faccio a tenere la pipì ancora per un'ora e allora chiedo ed ottengo sottovoce il permesso di calpestare qualche mattonella oltre il consueto limite della docenza a domicilio e tra un mi dispiace per lo stato del bagno, lo troverà in condizioni pietose e uno sguardo furtivo agli spazzolini colorati che testimoniano un prezioso scorrere di vita domestica finisco i miei bisogni giudicando dal profumo del sapone per le mani il mio livello di intesa con quel gruppo famigliare.
Chissà, forse un giorno, quando arriveremo alla torretta del palazzo, ci troveremo dentro anche la barriera dell'amicizia, e abbatterla avrà certo un sapore di successo tutto particolare.

Ma c'è una barriera - voglio confessarvi in questo post a lungo masticato - , c'è una barriera tra tutte che proprio mai avrei pensato di trovarmi davanti, e altrettanto mai avrei creduto di gioire sgretolandola - ché con questo genere di barriere non si tratta mai di un crollo improvviso, ma di tanti piccoli sassolini che si sbriciolano friabili sotto i colpi di un vento più forte e bizzarro del normale.

E questa barriera è la barriera dei fratelli.

Perché uno crede di andare a fare ripetizioni a casa di un alunno e di relazionarsi soltanto con l'alunno. Magari con la madre (i padri sono i più grandi assenti, in tutta questa commedia dell'arte, e chissà poi perché), per ciò che riguarda l'aspetto economico e più grigio della cosa. Magari con il cane - ahimé - o con un gatto (di rado, comunque, perché i gatti, il latino, di solito lo sanno già e non ammetterebbero mai di aver bisogno di una ripassatina). Una volta, eccezionalmente, con un coniglio; ma con i fratelli, uno mai penserebbe di dover avere a che fare. O forse sarà che io, di fratelli, non ne ho mai avuti.

Eppure la loro presenza, tra le mura di quelle case, la si respira. La respiri sotto forma di pianti, di risvegli pomeridiani; la annusi sotto forma di pappine; la calpesti sotto forma di biglie. La osservi silenziosa e giudicante dai riquadri delle foto, la percepisci dalle vibrazioni del muro accanto alla scrivania; qualche volta è una voce all'altro capo del filo telefonico; altre è una macchina in più sul vialetto d'ingresso.

Ma, per tutto il tempo che intercorre dalla prima visita in quelle pareti nuove fino al momento in cui l'allegra bufera comincia ad erodere quel muro inaspettato, i fratelli li senti, sì, ma non li incontri mai. Sono uno scalpiccìo di piedi al tuo passaggio, un paio di occhi che fuggono ogni saluto; difficilmente ricambiano il tuo ciao, ancor più di rado sorridono al tuo sorriso. E tu non dai loro torto, perché quella non è casa tua e tu semplicemente non vedi l'ora che sia passata un'ora e che il tappetino della panda torni a fare le fusa sotto ai tuoi piedi e magari è anche l'ultima lezione della giornata e cosa potrei prepararmi di buono per cena? - mi è rimasto giusto un paio di broccoli.



E allora, come tutte le conquiste che non si sa di conquistare, quando poi la ottieni la gioia è una di quelle gioie solide che profumano a lungo, e penetrano fin dentro ai cassetti dell'armadio come quei sacchettini di lavanda che si regalano a Natale.

E così è successo, al mio rientro dopo l'estate nella casa di Alessandro - che oramai si chiama Alle, ed è un'altra piccola picconata alla barriera della complicità - che le sue due sorelle gemelle, con quelle due teste ricciolute e ribelli che prima mi avevano concesso solo qualche boccolo nero, di spalle, in corsa, sono apparse dalla cucina con le mani tutte sporche di cioccolata e farina e in un sorriso che sapeva di toc toc alla porta mi hanno detto ciao! (con anche il punto esclamativo, ve lo posso garantire) noi stiamo cucinando degli orsetti dolci, ne volete un po'?
Ed è successo, poco prima che la scuola finisse, quando le università avevano già terminato le lezioni e la grande macchina nera tornava ad occupare il suo posto in cortile a fianco del garage, che il fratello di Beatrice (poco importa, a questo punto, che si trattasse di questo fratello, non è che poi, con le barriere, si possa essere tanto schizzinosi), fino ad allora presenza muta ed accigliata più sotto forma di vecchie sottolineature sul vocabolario che di essere vivente, è entrato in cucina mentre sua sorella andava di là a prendere il diario e si è fermato sopra alla mia testa, guardando alle righe latine con quel fare da Grande Uomo Bocconiano, e mi ha detto ancora con questo latino, state! - e non ci ha aggiunto proprio nessun sorriso, proprio nessun movimento del sopracciglio, soltanto un bevo un attimo un bicchiere d'acqua. Tu vuoi qualcosa?
Ma, soprattutto, è successo che, a furia di suonare il campanello a casa di Cristian e rispondere pazientemente con il mio nome al citofono e salire quelle scale ogni volta freddissime ed entrare in quella stanza che sapeva sempre di latte e di collosa infanzia, a furia di fare tutto questo per costruire la casa mia e di Cristian, un giorno, quando con la testa dolorante e gli occhi impastati di pensieri antipatici ho preso a strofinare i piedi sullo zerbino di ingresso, la sorella di Cristian - da quell'età imprecisata e turbolenta in cui si cominciano a balbettare le prime parole - facendo l'eco al gracchiante citofono, lo ha indicato e ha detto sputacchiando ...fìa! . E voi potete anche pensare che quel suono volesse indicare la cornetta, il filo, il microfono o la porta. Pensatelo pure, se vi va. Ma a me, che volesse chiamare il mio nome, non me lo leverà dalla testa proprio nessuno.

Nessun commento:

Posta un commento