La cucina, in quella che con sostenuta veemenza si potrebbe chiamare mattina presto, ma che per onor di cronaca era semplice mattina - ma i presto e i tardi, nel meraviglioso mondo dell'università, si sa sono spesso messi a fuoco con obiettivi tutti speciali - era una fredda landa bianca ancora punteggiata dai morti delle battaglie della sera prima. Resti di ogni tipo di pietanza - con preferenze per spaghettì in bianco e carni in scatola ormai dilaniate - decoravano i bancali e i famigerati fornelli à induction, ben prima che la sbrigativa e spigolosa femme de menage provvedesse, tra uno sbuffo e l'altro, a ricondurre ogni cosa alla pace - definitiva fino al pasto successivo.
Non c'era mai nessuno, in quelle mattine che per il micro mondo del foyer du Moulin Vert erano mattina presto e per il resto dell'universo - francese e non solo - semplicemente un gradino tra un'ora e l'altra della prima parte della giornata. Se mi capitava di riuscire a tirarmi su dal letto con una velocità leggermente più elevata del normale poteva capitarmi di incrociare Valentin, all'uscita dall'ascensore, che, animale più unico che raro, partiva sempre all'alba per raggiungere un posto nel lontano nord della città. Con un cenno tiratissimo al di sopra delle mie occhiaie, salutavo allora lui e i suoi inseparabili auricolari senza interrompere né il flusso della musica che gli teneva compagnia né, d'altra parte, il diradante flusso dei sogni ancora appiccicati in brandelli alle mie palpebre. La sera, a cena, gli avrei chiesto scusa, come al solito, per lo stato comatoso in cui versavo, e lui avrebbe sorriso, come al solito, tra una chiacchiera e l'altra, e mi avrebbe chiesto di assaggiare una forchettata di pasta col pesto.
E così, in quella cucina piena solo di avanzi e di spifferi - oltre che, di tanto in tanto, di qualche enigmatico giapponese che trafugava silenzioso cibo dal proprio armadietto - ogni mattina mettevo su il mio caffè, la mia fetta di pane tostato e la mia tazza di latte. E tutto sembrava difficile: il freddo, gli spifferi, la moka che non funzionava sui piani ad induzione e avevo dovuto comprare un fornelletto a piastra elettrica che si attaccava alla spina ed emanava scatti feroci ed un rozzo puzzo di metallo bruciato, il tostapane che si inceppava e poi arrivava sempre un giapponese a fregarmi il posto per la mia preziosissima fetta e mettiamoci pure il sonno, i pattumi perennemente strabordanti e di nuovo il freddo di un gennaio parigino particolarmente cattivo.
Tutto sembrava difficile, tranne lui: il latte nella tazza arancione che girava nel microonde.
E così ci terrei particolarmente a celebrare questo istante-biglia, oggi, e magari a renderlo pure una piccola festa - quindici novembre, festa della tazza arancione - oggi che faccio colazione in modo tanto diverso eppure quella cosa del pane tostato con la marmellata di arance mi è rimasta attaccata proprio da quelle colazioni là, al foyer du Moulin Vert, nel gennaio duemiladieci. Perché io, il microonde, mica l'avevo mai usato, prima di allora, e di certo non pensavo che potesse essere un metodo efficace per scaldare il latte, la mattina. E invece, un giorno, accodandomi silenziosa dietro le abitudini degli altri variopinti abitanti di quel buffo crocevia di culture, avevo visto che qualcun'altro - e senza mandare in pezzi la tazza, come io temevo nei miei incubi più reconditi - lo impiegava proprio per quell'uso e allora mi ero detta ma se ci mette così poco, perché non rendermi la vita anch'io un milligrammo più facile? E avevo abbandonato il pentolino di metallo in un angolo della camera, ed eletto la tazza arancione tra le prime file del battaglione colazionatorio, e preso confidenza, poco a poco, con tempi e temperature, e ora il mio latte era là, bello fiero, che roteava tra le braccia del microonde e mi rendeva la colazione un po' meno triste.
Oggi il latte nel caffè non lo prendo più caldo: la pigrizia mi ha spostato questo piccolo piacere con un brusco colpo di mano un po' troppo lontano dal tavolo. Non posseggo un microonde e la mia colazione è per tanti versi così diversa da quella bianca, fredda e combattiva colazione francese. Però un pensierino alla tazza arancione che si faceva condurre a passo di walzer - una tazza che, peraltro, chissà in che mani è finita ora, visto che avevo risparmiato lo spazio nella valigia, al mio ritorno in Italia, e l'avevo lasciata in pegno di amicizia eterna a quel Valentin che la mattina partiva presto armato di cuffiette e buona volontà - lo facciamo lo stesso, sì, e buona colazione a tutti.
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