La sensazione pesante e scanzonata di un doppio zaino calzato sulle spalle: il mio, azzurro, consunto, sotto; e quello di Alessandro, lungo lungo nelle sue bretelle srotolate il più possibile dalla cinghia, indossato sopra. Camminavamo così, una sulle spalle dell'altro, io e Alessandro, per le strade di Berlino, in quel terso inizio di primavera, di maturità e di 2003.
Il sapore di birra e gazzosa delle serate fuori programma che niente e nessuno le può fermare, a spasso lungo i resti del muro, spicciolati, nel buio, con la sola compagnia di noi stessi e dei riflettori luminosi di una settimana assolutamente speciale.
Cinque giorni di vacanza in Germania: la gita di terza liceo.
E poi, sì, l'odore ingarbugliato di una storia che ancora freme, sotto le ceneri di una modernità ammaliante, e la curiosità appassionata dei primi passi fuori casa, fuori provincia, fuori di noi. Linee antiche di confine, tonalità differenti di intonaci, vestigia greche in involucri teutonici, cappuccini amarissimi, grandi magazzini a enne piani, patate wurstel e patate e poi ancora birra e gazzosa, in bicchieri alti alti che non si vuotavano mai.
E così, di quella gita, di quei giorni ventosi e brillanti come pochi altri mai, finisce che ricordo solo ciò che è stato immortalato da fotografie. Da fotografie tremolanti e sfocate della mia amica Francesca, da fotografie eccellenti e vibrate del professore di matematica, da fotografie di particolari insignificanti mie. Da fotografie e - a dirla tutta - dal ricordo tangibile di un cartone di succo di arancia comprato e bevuto a metà con qualcuno, in qualche punto imprecisato e felice tra il checkpointcharlie e alexanderplatz.
Di quella vacanza, di quello squarcio di vita, di vero, di forza che ci fu solo permesso di sbirciare, dietro le quinte di un diploma ancora tutto in salita, mi restano in mano solo l'immagine di sette ragazzi compiti davanti ad un'automobile interamente dipinta, e la mia voce, impalpabile eppure autoritaria, da qualche parte lì dietro, che trilla facciamo una foto con le facce serie da bambini della DDR; mi restano solo il fotogramma di tre amici appollaiati sulle statue di Marx ed Engels, in esplorazione di una dimensione politica che ancora scottava nelle loro mani eppure ne avevano fame come di un manicaretto appena uscito dal forno, quando è sera e la mamma ti dice occhio che è ancora troppo caldo; mi restano sorrisi estasiati di fronte ad ammezzati interi di supermercato dedicati alla cancelleria (e mi resta - tangibile anch'esso - il colore brillante dell'inchiostro di una penna comprata con solennità per l'occasione: tu verde e io rosa); mi restano bianchi e neri di panchine al sole di carta di quel freddo principio di primavera. E poi basta.
Di ciò che non fu fotografato, comprato, toccato e conservato, ecco, non trattengo quasi nulla.
Dobbiamo forse infilarci in tasca un sassolino appuntito per tutti i luoghi dei quali calchiamo i sentieri? Comprare cartoline ad ogni tabaccheria di provincia? Lasciare un dito di birra in ogni bottiglia?
Ho sempre avuto uno strano rapporto con le fotografie; ci ho litigato spesso e spesso ho fatto a gara a chi - tra me e loro - si godeva di più lo spettacolo della vita. Mi tocca, ora, forse, di ricredermi?
E le parole? Le mie tanto amate parole? Che mi ritrovo a ripetere e rimasticare e modulare mille e più volte negli interstizi prima del sonno e della veglia, per non perdere il loro ricordo, la loro impronta, eppure mi pare che, ugualmente, il tempo le rattrappisca come aloni di vapore sul vetro: le mie adorate parole devono forse soccombere di fronte agli oggetti ed alle fotografie, perdere di fronte alle ditate - imperterrite, aggressive - che qualcuno ha disegnato a dispregio del candore passeggero del soffio di caldo sulla superficie lucida del finestrino?
Forse che non vivo, se non conservo biglietti di autobus sul fondo delle borse? Se anche nulla restasse sui miei vestiti, se ogni granello di sabbia rotolasse via, al salire per l'ennesima volta sul treno, se gli odori se li mangiasse la lavatrice, i sapori il caffè della mattina dopo e le scritte la gomma, se anche ogni piega curata della gonna fosse gualcita dai sedili di un'auto e niente, ma proprio niente potesse essere accarezzato, tra l'incavo del braccio ed il calore del petto, in sostituzione e palliativo di ciò che comunemente si chiama gioia, forse che quella felicità di prima, di lassù, di pochi gradini più sopra, sarebbe meno tintinnante?
Mi è venuta voglia di tornare a Berlino. Chissà se in quel bar fanno ancora una cioccolata calda da paura.
Tinni, posso darti un consiglio? Perchè non provi a ridurre la tua prosa, renderla meno ridondante, rotolante,sovraccarica? Leggere i tuoi post è davvero faticoso, potresti ridurli della metà e rendere i tuoi scritti più leggibili.
RispondiEliminaSecondo me, ovviamente.
Giulia
Hai ragione, Giulia: ultimamente, poi, sono un profluvio di rotolamenti! Prometto che ci provo, a ridurre, dai. Tu fammi sapere.
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