Si appoggiava il proprio sedere fiero e assonnato (di quel sonno nervoso che non si placherebbe con un letto, e che tiene svegli più di tanti caffè) sui bordi di un rigido scalino; e lo scalino non si aspettava di certo quel peso tondeggiante - lui, abituato per lo più a tacchi brillantini e colpi netti di suola - eppure, dopo i primi attimi di resistenza, cominciava a regalare sommesso qualche centimetro quadrato di calore, e di quel calore tutto tuo, meritato, tu ne facevi un pacchetto, un pacchetto di carta oleosa da tenere in tasca per la fame di certezza che ti avrebbe preso dopo, in un poi da spingere ancora un poco più in là, quando sarebbe arrivato il momento.
Si appoggiava il proprio culo sui gradini e non sulle immacolate poltrone scarlatte, sicuri della propria elezione al contrario, soddisfatti di quel retrobottega e di quell'infimo rango condiviso soltanto con girovaghi e donne delle pulizie. Felici del proprio basso.
E si guardavano gli altri.
Spogliati per un istante ancora dai pesi dei propri personaggi e, in quell'attimo solo, anche da quelli dei propri nomi, cognomi, professione e codice fiscale, ci si lasciava abbracciare da parole ormai note e da cantilene avvolgenti, tanto più vecchie di noi da apparire nonne affettuose. E, come si fa con le nonne di cui, personalmente, ho soltanto un ricordo lontano, si masticavano caramelle trafugate a pochi passi dalla cena, volutamente dimentichi, ma felici.
E si sapeva, in quei momenti - lo si sapeva con quella certezza solida con cui da bambini si elegge il proprio gusto di ghiacciolo preferito - che chiunque fosse con noi, lì, seduto su gradini freddi e compunti che poco a poco si lasciavano commuovere dall'ondeggiare sommesso dei nostri didietro, sarebbe stato, per sempre, nostro fratello.
Il tempo in cui preparavo prove generali di spettacoli di teatro è finito da un pezzo, così come da tempo ho cambiato e sperimentato ogni tipo possibile di gusto di ghiacciolo (anche se, ultimamente, ho avuto un repentino ritorno alle origini dell'arancia, devo ammetterlo). Ogni tanto, e chissà poi perché, mi sogno quegli istanti di sospensione familiare e mi risveglio con la voglia di raccontarli qui, a voi.
Ma non sono certo la prima che pensa - a tratti - a questa sua vita come ad un complesso spettacolo di teatro - o meglio, come alle sue estenuanti e spesso inconcludenti prove generali. A volte vorrei soltanto chiedere al regista di provare la scena in cui ci sono Arlecchino e Pulcinella, e in cui io entro solo a cinque minuti dalla fine, per poter appoggiare culo e anima sullo spigolo di un gradino antipatico e, per qualche istante, fingermi una spettatrice di terza classe fatta entrare a spettacolo iniziato che si gode, silenziosa, le pareti di un lussuoso palazzo non suo.
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