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sabato 12 agosto 2017

Scalata

Il due maggio del duemilaesedici è incominciato un viaggio che possiamo descrivere anche come una scalata. Una scalata, sì, perché si partiva da terra, da una terra certa e confortante - la potremmo chiamare la terra del tempo indeterminato alla scuola paritaria, ma nessun titolo esatto potrebbe descrivere a lettori ignari e lontani quanto ci si stesse comodi, in quel lembo di terra, accoccolati sulle zolle calde a fare il proprio mestiere preferito - e i cartelli con le frecce promettevano una salita verso l'alto, pressoché istantanea, verso un traguardo quasi stellare - il ruolo!, parola semi mistica che solo adesso mi permetto di sussurrare, adesso che ci sono arrivata (e in modo tutt'altro che istantaneo).

I cartelli promettevano un'agevole ascensione, tramite piccoli ma frequenti gradini, e invece la scalata è stata dura e impervia, e i gradini spesso mancavano del tutto: mancavano tra il dodici maggio e il quindici settembre, e si è aspettato con fragile pazienza al bordo di una curva, su un misero altipiano, avvolti dall'incertezza; poi la strada saliva a picco improvvisamente, tra l'otto e il nove febbraio, con scalini grossi da divorare con impegnative falcate (e si sa, la Tinni non è che abbia questa gambalunga...). Ogni tanto ai margini del sentiero ci si fermava un poco a piangere - di rabbia o di emozione; altre volte le mani e i volti amici scherzavano tra loro sulle asperità del cammino e ne ricavavano un pacchetto in più d'amore da nascondere tra le pagine del libro serale.  Ma in molte altre occasioni si era soli, soprattutto al volgere del giorno, e per non pensare a pensieri troppo pe(n)santi si sminuzzavano i frammenti dei minuti in occupazioni futili e in prove di verifica per la settimana a venire.

Il due maggio del duemilaediciassette, forse per festeggiare un traballante anniversario, un raggio di sole ha illuminato la via dell'ascesa, ma chi saltellava urlando di gioia incredula davanti al Palazzo ducale di Mantova non poteva sapere che quel raggio di sole sarebbe stato semplicemente l'ultimo prima di un tratto ripido e scosceso, più difficile di tutti i precedenti. E allora, con uno zaino sempre più carico di angosce e le tasche traboccanti di fiori, fragilità e sorrisi raccolti lungo il sentiero nelle pause per riprendere fiato, si sono masticati i gradini fino al ventisette giugno, terminati i quali la strada da percorrere coi nostri piedi pareva finalmente finita.

Ma non era finita la scalata.

Non era finito un bel niente perché da lì in poi si saliva soltanto in ascensore, con tappe arbitrarie, sussulti nel sonno, un numero indefinito di passeggeri stretti in cabina come sardine, piani elaborati e poi puntualmente mandati a monte, su, sempre più su, verso una vetta che aveva ormai perso ogni romantica prospettiva. Ci siamo fermati il ventiquattro luglio, il venticinque verso sera, il due agosto - e a Bologna, per giunta! - e il dieci dello stesso mese, quando improvvisamente l'ascensore si è aperto e chi era rimasto in piedi durante tutto quello sballottamento si è precipitato a guardare di sotto.

Per scoprire che al di sotto, semplicemente, non c'era più nulla.

Una fitta nebbia avvolgeva la montagna finalmente conquistata e non permetteva di godere di quella che sarebbe stata la meritata vista delle fatiche conseguite. Nebbia tutto in basso e nebbia anche sopra di noi, fino al cielo, che potevamo soltanto immaginare limpido, lassù da qualche parte, a giudicare dalle grida di giubilo delle aquile e dei passerotti. Avvolti in una nuvola spessa e umida ci sentivamo arrivati, sì, ma non sapevamo dove.

Non potevamo guardare né su né giù.
Non restava che guardarci in faccia. Che chinare lo sguardo sui nostri scarponi impolverati; sulle ciabatte che qualche imprudente non aveva fatto in tempo a cambiarsi prima di partire; sui calli, sulle vesciche e sulle unghie sporche; sui buchi dei calzini, sulle dita dei piedi che finalmente respiravano vita; sulle occhiaie e su tutto quel cumulo di paure istintive che avevamo fatto nostro in quell'anno di sfida continua. E imparare finalmente, di nuovo, a chiamarci per nome. Magari mettendoci un prof. davanti, che fa sempre la sua bella figura.

Tinni è ancora là, su quella vetta annebbiata; si sta mettendo qualche cerotto sui calcagni, sente che da qualche parte della sua anima è felice, ma deve re-imparare a lasciarlo uscire.

2 commenti:

  1. Ma quindi sei diventata insegnante di ruolo? Ma per che tipo di scuola? (elementari, medie, superiori...)

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  2. Sulla cima della montagna ci ho trovato un posto di ruolo in un liceo della provincia di Modena, classe di concorso italiano e latino!

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