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mercoledì 2 maggio 2018

Istanti-colla

Passo di tacchi in avvicinamento. Fogli di sbieco tra le braccia; Cosa fai tu qui? Brandelli di temi spiegazzati. Prof, posso andare un secondo in bagno? Un'ultima controllatina alla chiavetta: è lì, fedele, nella tasca davanti dello zainetto. Sì, ma fai veloce, che facciamo il ripassone per domani. Ed ecco la soglia: la porta è spalancata sulla familiare, ciarliera e scomposta umanità. Ha per caso corretto i temi? Uno sguardo alla lavagna: equazioni e, sotto, termini filosofici sbiaditi. No, ve li porto domani. Cancellate la lavagna, per piacere? Una si affretta, gli altri in piedi: chi ritto e impettito, chi controvoglia, chi a metà, chi non fa nemmeno in tempo. Si entra. Buongiorno, seduti. Chiusura di porta. Dove eravamo rimasti? Ah, sì, il ripassone per domani.

Quella porta, quella soglia di altrove, quel confine ritagliato oltre bollette e ristrutturazioni (per me), al di là di qualsiasi instagram story (per loro), fuori da famiglie, fratture, cure e spasimanti, quel varco di puro e semplice noi, si riaprirà un'altra volta soltanto, pochi istanti dopo, per inglobare l'alunna dalla pipì e dalla distrazione facile, e poi mai più, per gli interi e successivi cinquantacinque minuti. 
Si comincia, ragazzi: è l'ora di lezione.

Di lezioni ogni giorno ne si accavallano a bizzeffe: quelle cattedratiche e memorabili, quelle interattive e sorprendenti, quelle fallimentari e incazzose; le noiosissime e parziali interrogazioni, i tesi compiti in classe, i filmati con bisbiglio, le discussioni polemiche, le pedanti correzioni dei compiti a casa.
Quali preferiamo? Quali ci restano più impresse? Quali ricordiamo con sorriso più largo?

La verità più vera è forse che nessuna lezione, davvero, ci resta. Anche la spiegazione più infervorata, giunta l'ora di pranzo, tende a sbriciolarsi in tante spigolature sempre più sbiadite. La si racconta a qualcuno, e già ripercorrendola le parole faticano a centrare il punto, ad affondare nella realtà dei fatti, a riprodurre modulazioni divenute sempre più eteree, impalpabili, e ora già nulle.
No, non sono le lezioni intere ad essere ricordate: quei cinquantacinque minuti restano incatenati logicamente gli uni agli altri solo nelle pagine di appunti degli studenti diligenti: inodori, incolori, tratti di penna su fredda carta bianca.

A me quello che resta sono gli istanti-colla. Ho cominciato tra me e me a chiamarli così perché mi sembrava che fosse grazie a loro se le memorie umane di un anno scolastico si attaccavano alla mia pelle senza scivolare via. Una patina appiccicaticcia dipinta sulle mie mani, come ai tempi del vinavil e degli scout, che prima di seccare (in estate, di solito), permette alle facce alle frasi ai cuori e agli sguardi di appiccicarsi a chi li ha vissuti e non li fa evaporare più.



E tra tutti gli istanti-colla - attimi insignificanti, riti sempre uguali eppure quella volta più uguali degli altri, interstizi di grazia, briciole di comunità - io ne ho uno che preferisco su tutti. Forse ogni insegnante ha il suo: le teste chinate sui fogli di verifica, improvvisamente silenti e compite dopo mesi di caos, o quell'appello di filato con le voci che rispondevano praticamente tutte allo stesso ritmo, come un'orchestra di fiati; il silenzio prima di una risata condivisa e pure un po' illecita, o anche un arrivederci all'unisono all'uscita dalla classe... Chissà se gli altri insegnanti ci hanno mai pensato. Ma gli istanti-colla esistono a prescindere dall'acutezza e dall'intuito dei professori. Se ne stanno lì, trasudando adesivo, e si susseguono a ritmo variabile lungo tutto l'anno scolastico: silenti, viscosi, umili.

La prossima volta vi racconto il mio istante-colla del cuore. 



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