E' da tanti anni ormai che salgo, scendo, siedo e sto in piedi sui treni e in tutti questi anni c'è una sola cosa che non ho mai smesso di invidiare.
Qui fuori il sole sta combattendo la sua faticosissima battaglia contro la nebbia e io volevo raccontarvi di questa cosa che non ho mai smesso, in tanti anni di frequentazione varia e consapevole di treni - frequentazione regionale, internazionale, notturna, elettrica, a gasolio, polentona e terrona (e, recentissimamente, pure itala) - non ho proprio mai smesso di invidiare.
La pianta grassa che ho appena posato accanto a me sul tavolo per strappare un po' di compagnia all'unico altro essere vivente di questa casa mi sta riempiendo il naso di muco con tutta quella polvere che tiene attaccata alle sue strane foglie dure ma io, ugualmente, vorrei spiegarvi cos'è che mi ha sempre suscitato invidia e distaccati sorrisi di malinconia, dentro ai treni, in tutti questi anni.
Ebbene, sono le persone che appena si siedono si tolgono le giacche.
Ovviamente sto parlando dell'inverno (quel tipo di invidia si congela, d'estate, ma spesso brandelli di questa si tramutano in rabbie episodiche per i livelli indecenti di aria condizionata sparata dai bocchettoni, e comunque questa è un'altra storia), e ovviamente sto parlando di tutti quelli che, compostamente, senza dare disturbo a nessuno, una volta preso posto sull'apposito sedile, rialzano delicatamente il proprio fondoschiena - ma non tanto, ché tengono sempre le gambe un poco piegate, assecondando miti la linea ondulata della poltroncina - accarezzano uno dopo l'altro i bottoni del proprio cappotto, lo sfilano con eleganza, svoltolano sciarpe, estraggono cappelli, punzecchiano una ad una le dita dei guanti, e poi, denudati, si risiedono con cautela. Il picco della mia ammirazione astiosa lo raggiungono quelli che, i cappotti, poi li adagiano come figli dormienti nel ripiano superiore portabagagli: non ne avranno più bisogno, capite? I viaggi loro e delle loro giacche procederanno di matura autonomia, su due livelli di altezza dal mare differenti, amandosi e rispettandosi, ma a distanza.
Ecco, io non ci sono mai riuscita.
Io raggiungo sempre una carrozza di treno con in corpo una dose così elevata di freddo raggrumato da non riuscire a far altro che ristringermi ancor di più dentro me stessa, dentro il mio cappotto, la mia sciarpa, i miei guanti e il mio cappuccio. Li bistratto, lamentandomi per le scarse prestazioni; lo odio, li logoro, eppure non posso fare a meno di loro - fragili tiranni.
E me ne sto lì, raccogliendo il caldo del vagone goccia dopo goccia, come penetra pigro sotto i miei molti strati, attonita, senza saper riordinare nulla del mio bagaglio, del mio vestiario, della mia giornata, del mio viaggio. A volte, sì, salgo sul treno col fiatone di una corsa ritardataria, sudo, ansimo, e trovo posto già scaldata: ma anche allora, anche quando il caldo del treno mi accoglie con familiarità nota, la paura strisciante che in poco tempo - complice qualche bottone irrequieto - tutto quel meraviglioso tepore svanisca per lasciare il posto ad un temibile campo di brividi, anche lì, anche in quel caso, preferisco non abbandonare la fedele e sbrindellata compagnia del mio cappotto, e gusto minuto per minuto quell'isolato momento di gloria accaldata.
Perché sono nata freddolosa?- non c'è modo per guarire, mi hanno detto. Perché non sono capace di svestirmi in fretta di tutto ciò di cui non c'è bisogno e di addormentarlo, dolce, nel piano superiore del mio scompartimento di vita? Perché non ritaglio i minuti sospesi prima della partenza per riordinare il mio aspetto, le mie carte, il mio zaino e la mia giornata? Finisco, ogni volta, schiacciata contro il sedile, contro la testata del letto, e contro tutte le mie stupidissime paure, a guardare dolente le meticolosità precise degli altri, senza saper mai dire suvvia, proviamoci, ecchesaràmai: perché? Perché non so spalmare, a casa, dopo la doccia, uno strato corposo e unto di crema protettiva e ottimista contro tutti i freddi delle prime ore del mattino e delle ultime ore della notte?
La polvere della mia pianta grassa continua a colare - sotto forma liquida - dai condotti del mio naso; il sole ha definitivamente perso la sua faticosissima battaglia contro la nebbia, e io, dal mio cantuccio accanto al termosifone, vi ho raccontato che sono invidiosa di tutti coloro che, poco prima di una partenza, sanno riordinare pesi, bagagli ed idee; sono in grado di valutare - e di regolare - bisogni termici e vitali; non si rattrappiscono intorno ai loro brutti pensieri e vanno incontro alla stazione successiva con pochi strati intorno alla pelle. Senza giacche, senza sciarpe, senza corazza e senza sciocchi automatismi. Ché il sole, dal finestrino, scalda a sufficienza per tutti; e, senza strati, lo senti anche di più.
io mi corico persino con la giacca
RispondiEliminaGuarda, sono proprio una delle persone per cui provi invidia... come utente trenitalia. Ma nei vagoni della vita (tra l'altro, mi pare che abbiamo viaggiato insieme ultimamente, in classe tieffea. E mi perdoni l'ardire di curiosare fra queste pagine ;-) ) anche per me è la Transiberiana. Insieme a valigie di cartone tenute insieme con lo spago
RispondiElimina@plus: sempre saputo che tra me e te ci era del filing.
RispondiElimina@vaporone (del quale posso solo azzardare un'identità tieffina ma non credo di discostarmi molto dal vero): che dire? grazie di essere finito qui! e ..buon viaggio!