Emma ha tredici anni e (quasi) sempre la mano alzata. Si è affacciata da qualche settimana all’oblò del suo primo anno di liceo e ci sono (quasi sempre) delle cose che non sa, non capisce o di cui vuole conferma. Paradigmi, scadenze, numeri di pagina. Emma ha letto diligentemente il racconto di Cechov Uno scherzetto – così lo traduce il suo libro di narrativa – e alla fine, manco a dirlo, alza la sua mano paffuta. “Ma quindi, prof, lui la stava prendendo in giro?”. La campanella si mangia il tempo della risposta, ma alla sua prof non sfugge che, mentre tutti i compagni se ne vanno incuranti, Emma resta ferma un attimo coi suoi pensieri e poi, all’improvviso, si gira verso l’amica esclamando: “Che gran bastardo!”.
E se i racconti servissero a questo? Ad infilare nell’astuccio di Emma – e un po’ in quello di tutti noi – oltre ai punti interrogativi e alle matite d’ordinanza, anche una manciata di punti fermi, esclamativi e penne a sfera?
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