MOLTEPLICI INIZI.


A proposito di:

interculturalità - scuola - letture - frivolezze - risparmio - poesia - creatività - viaggi - pande - giardinaggio ... e bizzarrie varie.

lunedì 28 luglio 2025

Rifrazioni

E poi un giorno la bidella Anna, incrociandomi chissà come all'uscita della sala insegnanti, aveva mormorato sorridendo - più tra sé e sé che rivolgendomi effettivamente la parola - ho finalmente ritrovato il nostro dymo, non ci speravo più

L'oggetto agognato, in effetti, era lì: azzurro tra le sue mani bianche. Un dymo come quelli di una volta - non digitale, senza schermo, con i soli caratterini scorrevoli lungo la totalizzante rotella. Un oggetto incantevole, atavico, che ritrovare perduto è sicuramente, in ogni tempo, un piccolo miracolo.

Ma funziona ancora? Lo ha provato? Le chiedevo allora io. 

Scopriamolo insieme! Una volta lo usavamo per attaccare i nomi sui cassetti dei prof... Cosa vuole che le scriva, sul suo cassetto, adesso che il suo nome già c'è? Mi rispondeva la bidella Anna, alla quale quell'inatteso recupero aveva risvegliato una gentilezza da tempo sopita.

Tra noi si era incuneato un attimo di esitazione silenziosa. Perché io, la parola magica che avrei voluto tatuare sul mio misero armadietto sempre difettoso, quella che sarebbe stata il mantra convinto prima di prelevare verifiche sanguinanti o di riporre il cucchiaino del caffè sempre ancora un po' appiccicoso, non avevo mica tanti dubbi di quale dovesse essere. Ma lei - mi chiedevo in quell'intercapedine d'incertezza - avrebbe capito, annuito, digitato o piuttosto avrebbe calpestato il mio tinnico vessillo con quell'atteggiamento sprezzante che altre volte mi ero vista agilmente recapitare?

Ma l'occasione era troppo ghiotta perché non dovessi approfittarne, e lo sguardo di Anna troppo bonario perché potessi non tuffarmici, per cui avevo inspirato e detto, molto risolutamente:

Vorrei che mi scrivesse amore

Un'occhiata perplessa e di parziale scherno me l'ero comunque guadagnata e, anzi, manco avevo capito se la richiesta sarebbe effettivamente andata a buon fine. La signora Anna si era voltata quasi mandandomi a quel paese e le nostre traiettorie adulte in un mondo adolescente avevano continuato a procedere imperterrite verso lidi ignoti l'una all'altra. 

Era stato solo molte carte igieniche, lavagne, stracci, registri e caffè dopo che avevo intravisto nuovamente la sua massa buona di capelli scuri ai margini del mio campo visivo, già un po' annebbiato per la fame della quinta ora. Si avvicinava inequivocabilmente verso di me. Mi porgeva qualcosa. Se ne andava veloce e sorniona. In mano mi ritrovavo un ritaglietto di dymo con su scritto, letteralmente "... e amore sia".

E così, da quel giorno, sul mio cassetto di insegnante campeggiano un cognome e l'etichetta della bidella Anna con sopra incisa la parola amore.

E tutto questo aneddoto, nelle mie intenzioni originali, doveva rappresentare soltanto la breve e svolazzante premessa del post odierno, solo che il dymo e la signora Anna si sono presi uno spazio tutto loro ed è stato bello e giusto così, forse. A me, in fondo, servivano solo per introdurre il concetto che l'amore, nell'idea di scuola di Tinni e anche nella sua pratica, è proprio il sottofondo musicale di cui non si può fare a meno. 

Tinni ama i suoi studenti - tutti - e non fa nessuna fatica ad essere così. Non lo dice, non lo scrive e non lo compie per retorica o per vezzo. Se deve isolare una cosa che sa di saper fare bene e facile, è proprio quella. Amare gli adolescenti dai quattordici ai diciannove anni: quelli che prendono sempre 4 e quelli che prendono sempre 10, tutte le sfumature in mezzo comprese. Primini impacciati e maturandi ansiosi. I ricchi carpigiani e i disperati che si svegliano alle 5.55 per prendere la corriera da Moglia. Purché siedano dietro un banco. Purché abbiano un cognome ed un nome allineati ordinatamente in una colonna dentro all'applicazione classeviva

Ma come fai?! Io li ammazzerei tutti, i ragazzini. Ci vuole davvero una vocazione.

Se la maggioranza di coloro a cui parlo del mio mestiere ribattono all'incirca così, la stessa nutrita fetta di umanità volterebbe forse lo sguardo imbarazzato nel sentirmi confessare che io, quell'amore pieno e vivo lì, quello che germoglia semplice dalla cattedra, faccio invece tanta fatica a sentirlo per qualcuno che, per sua stessa natura, dovrebbe ispirarmelo.

Che fatica, amare mio figlio Guido. Una vocazione, mi sembra ci voglia: vocazione che più controllo e meno mi pare di avere in dotazione. 

E così la vita di Tinni aveva continuato per anni su due binari paralleli e rigorosamente stagni: l'amore scolastico a manate semplici, quello materno a gocce rade e gravose.

Fino ad oggi: un giorno che di scolastico non possiede praticamente nulla, ed è nascosta proprio lì, forse apposta, la sua forza impensata.

Oggi pomeriggio un "alunno non-più-tale" - uno di quei rari allievi con il quale ci siamo piaciuti forse un pizzico in più del consentito, e poi anche un po' odiati, e poi chiariti, e sempre, comunque, amati - ha deciso di riesumare dalla sua cantina, e spolverare, e poi montare, e poi inscatolare con premura un'antica e turrita caserma dei pompieri lego. E perché? Perché quello scatolone potesse prendere la via di una panda - ancora lei - e arrivare dritto e silenzioso fino al terzo piano senza ascensore della casa della "prof non-più-tale" che tanto il suo padrone aveva amato, e in particolare fino ad una delle molteplici stanze di quella casa, che, lo avrete capito anche da soli, non era certo la stanza di lei, bensì quella di suo figlio cinquenne. 

Ma chi lo ha detto che le rette parallele non si incontrano mai? A volte, quello sì, servono uno scarto, uno scambio, oppure una leva dritta e aperta sulla vita. Oggi pomeriggio le rette parallele della vita di Tinni si sono conosciute e trovate e - come sempre accade quando le ferree leggi della matematica vengono imprevedibilmente violate - hanno preso parte ad un piccolo miracolo.

Un miracolo piccolo e potentissimo: come ritrovare un vecchio dymo funzionante nel caos di una scuola grande e polverosa. Oppure come quello di un bambino mammone che gioca da solo con i lego nella sua camera per ore e ore mentre la sua incredula genitrice cucina, e balla, e porta giù la spazzatura (ah, sei già tornata?) e addirittura scrive (almeno per metà) questo racconto, su di uno schermo che mai prima d'ora era stato aperto se non a buonanotte inoltrata. 

E allora forse tutto questo ci può insegnare - lui più di me - una cosa: che procurare giochi nuovi ai propri figli è un'ottima occasione di auto-intrattenimento? La camera già da tempo stracolma di oggetti sembra smentirlo.

Piuttosto, io credo, che l'amore parcheggiato sopra al mio cassetto della sala insegnanti e dentro alle vite di ciascuno di noi funziona un po' come l'eco di un raggio di sole allo specchio. Rimbalza. Stupisce. Scalda per riflesso. Cuoce senza bruciare. Possiamo pensare, lungo certi tratti della nostra esistenza, che il suo bersaglio non sia centrato, che quel calore stia andando disperso, che chi dovrebbe sentirlo non sia lì, al posto giusto. E invece no: ogni volta una diversa superficie riflettente sarà pronta a deviarne l'imprevisto; ci sarà sempre una finestra ben lucidata dall'angolo della quale il nostro occhiolino arriverà là dove deve arrivare, e poi anche, per rifrazione, un po' dentro di noi.


lunedì 21 luglio 2025

Caro Sofocle

Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante

di ferirci

  

C'era una volta, in una galassia lontana nel tempo e un po' anche nello spazio, Tinni alle prime armi con le ripetizioni di latino (e non solo); e c'erano una volta, seduti al suo fianco a respirare la stessa aria densa di ablativi assoluti, una sfilza di adolescenti un po' brufolosi e brontoloni che diventavano, verbo dopo soggetto, un pezzettino di lei. E c'erano anche: una panda rossa e canterina che trasportava l'una dagli altri praticamente tutti i giorni; una casa dentro una chiesa; un taglio di capelli asimmetrico; un blog e poche altre cose che, con gli occhi di oggi, mi pare si possa dire che stavano costruendo silenziosamente le radici di un albero enorme e inaspettato.

C'era una volta tutto questo groviglio didattico ed esistenziale ma, soprattutto, vorrei (ri)parlarvi del fatto che c'era una volta un allievo un po' speciale. 

M., il mio allievo cieco, che si era seduto accanto a quella Tinni sprovveduta per una decina di mesi - prima che il terremoto si portasse via le ultime due settimane di scuola, e di biennio (per lui) e di progetto pagato dal comune (per me). 

M., il mio allievo che proprio con il latino non riusciva ad entrare in sintonia - forse peggio di chiunque altro in quegli anni di tinniche soddisfazioni mendicate e potenti - ma non perché non volesse, o perché fosse innamorato, o perché lui doveva fare il tecnico e la madre non lo aveva saputo capire; non perché la sua prof gli chiedesse troppi paradigmi a memoria; non per colpa del compagno di banco e neppure del gatto, morto ormai troppe volte per giustificare compiti mai svolti.

M. non poteva proprio, lui, entrare in sintonia con il latino. E lo capisco (lo vedo) solo adesso, che, dai rami più alti di quell'albero enorme e inaspettato, un po' mi crogiolo a guardare in basso e un po' accolgo al mio fianco un alunno nuovo e speciale che mi fa compagnia mentre - come accade ogni volta, antica o inedita che sia - reimparo da capo il latino insegnandolo, in un prodigioso gioco di specchi.

M. non poteva tradurre il latino, soprattutto quando si innalza, facendosi bello e aspro, perché - al buio dalla nascita - non poteva vederlo, ma solo toccarlo. M., che leggeva tutti i suoi libri con il dito indice destro, mentre sulla striscia metallica allegata al suo computer salivano e scendevano solerti pallini e, valle dopo montagna, a contatto con il suo polpastrello zelante le parole arrivavano fino alla cima di lui. Non poteva capirlo perché il latino di una sola cosa ha bisogno: e in tanti potrebbero chiosare di pazienza; di memoria; di esercizio; o anche di culo, più prosaicamente. Ma io invece credo che il latino abbia più che altro necessità vitale di uno sguardo lungo.

Uno sguardo che, appena entra tra quelle quattro pareti verbali, sappia abbracciare sorridendo, e poi correre lieve in fondo alla frase; ma che poi si volti indietro per non lasciare indietro nessuno, e dopo un po' che se ne sta lì, ad accarezzare mani e ginocchia, esca sul balcone per guardare ancora una volta dall'alto tutto il palazzo, e i suoi abitanti, e solo allora socchiudere gli occhi mormorando ci siamo.

Il latino ha bisogno di quello sguardo lì, per essere amato: ubiquo, vorace, alto, materno; uno sguardo che nessun polpastrello, seppur zelante, potrà mai restituire.


Povero M., dunque: come avrà finito i tre anni di liceo classico che lo attendevano? 

E se fossimo in un libro di didattica del latino questa storia finirebbe qui, piegandosi come un nastro ubbidiente su se stessa e sulla sua nitida e nuova consapevolezza. Se fossimo. Ma non è perché ce ne stiamo seduti ormai comodamente da qualche anno sulla cima di un albero frondoso e secolare che i guai e i però siano proprio finiti. Saremmo qui, altrimenti?

Perché, forse, M. non potrà mai assaggiare la possanza del latino più limpido e tortuoso, però, a volte - quando vocabolario, grammatica e quaderno si chiudono sul banco lasciando intravedere la vita - Tinni si ritrova a desiderare piuttosto il suo polpastrello destro.

Toccare il tempo, invece di guardarlo. Sfiorare e comprendere solo quei tre o quattro puntolini rialzati che avvolgono la preparazione della cena, il trasporto di cinque mattoncini lego dalla "fabbrica" alla "discarica" tramite apposito furgoncino in miniatura, il capitolo di una storia, le facciate di un menu da cui a breve si ordinerà qualcosa di amato, il percorso da casa alla biblioteca, una domanda e la sua risposta, un ghiacciolo all'arancia, la canzone dolceamara che Spotify ti ha appena regalato. Fino lì e basta. E poi un altro segmento di puntolini. Un altro. Un altro ancora. Senza che mai le ali di quell'albatros maestoso e bastardo si librino sul futuro - né il prossimo, né il remoto - e meno che mai sul passato (avrei potuto? avrei dovuto? tornerà?).
 
Allora intendevi questo, Sofocle, quando - tra un bisogno fisiologico e l'altro (perché siamo tutti d'accordo - no? - che la cacca la facessero anche gli ultraumani come lui o come Socrate, pur in quel mondo elettrico di intelligenza suprema che doveva essere l'Atene del quinto secolo) - dipingevi Edipo strapparsi gli occhi al culmine del suo dolore? Non per punirsi? Non perché aveva sbagliato tutto? Non perché aveva visto - e pensato - troppo e male? 

Semplicemente per assomigliare un poco al polpastrello destro di M., alunno per anni dimenticato e ora, all'improvviso, innalzato al rango di piccolo paradigma della - impossibile - felicità? 




mercoledì 9 luglio 2025

Non sono previste piogge.

Con estremo narcisismo, voglio vedere il mio passato nero su bianco e grazie a questo diventare ciò che non sono.
A. Ernaux

Non sono previste piogge sul territorio provinciale.

Così recitava zelante il meteo di ModenaToday, qualche pomeriggio fa, quando, in un improvviso quanto raro momento di scrupolo, Tinni controllava la pagina dedicata prima di lasciare le veneziane a spenzolare bonarie dal suo balcone.

Non passavano neanche dieci minuti, però, e tutto ad un tratto la visuale dal parabrezza della panda si tingeva di colore bianco, mentre intorno a lei, con traiettorie orizzontali, si apprezzavano in volo rami, acqua, ghiaccio, pigne e stracci strappati ai balconi.

La nostra protagonista ed il suo fedele mezzo di trasporto si trovavano ormai lontane dai prevedibili ripari delle ultime propaggini di città. Di proseguire, finché tutto quel bianco non avesse dato una tregua, non era certo il caso, ed allora le due amiche osservavano altre coppie di lunga data - conducenti al rientro da giornate stanche, leali scatolette a quattro ruote - toccare con mano lieve il pulsante delle quattro frecce ed accoccolarsi umili e raccolte sotto al cavalcavia della ciclabile.

Tinni e la panda si accodavano a quel gesto mansueto e dimesso, come ad attendere, stretti insieme, che il rimbrotto severo di una natura ferita passasse lasciandoci non troppo ammaccati. Le altre macchine, vedendole accostare, si tiravano un centimetro indietro, in avanti, di lato e silenziosamente offrivano il fianco alla muta e sottomessa condivisione del pericolo. La panda arrestava il respiro e l'abitacolo si riempiva così, con una forza ancora maggiore, della violenza ghiacciata di quel tempo impazzito. 


Tinni odia i temporali dacché ne ha memoria e ne prova una vischiosa e fottuta paura. La storia della gabbia di Faraday non le è di alcun aiuto. Le vengono sempre gli attacchi di panico e alla fine, scivolandosene via insieme agli ultimi tuoni lontani, le lasciano addosso un senso di vergogna e spossatezza.

Si preparava pertanto, anche lì - mezza fuori e mezza dentro il cavalcavia della ciclabile - , serrando i pugni e anche un po' la pelle, all'arrivo della familiare ondata di paura. 

Ma la paura, semplicemente, non arrivava.

Gli occhi, quelli sì, atterrivano mentre grandine e cambiamento climatico si rovesciavano addosso alla carrozzeria tra una parolaccia e l'altra di una delle poche canzoni italiane che il suo spotify conoscesse, ma altro no: nessun getto potente di terrore penetrava a scuotere quelle quattro mura di alluminio e carne; ed era, probabilmente, la prima volta in tutta la sua vita. 

Zero; nulla; vuoto. Niente brividi, niente sudore, niente battiti accelerati. Nessuna visione di morte. Nessuna scena iniziale de Il mago di Oz. Nessun bisogno impellente di chiamare numeri rassicuranti per sentirsi riproporre un confortante pacchettino di banalità. E vorrei che - se pur dietro alle sillabe narcise ed un po' enfatiche a cui queste pagine sono ormai abituate - percepiste la nuda e potente schiettezza di questo incredibile non-evento.

Che cosa accadeva? Perché all'improvviso quella donna - che ormai nessuno oggi, nemmeno in un estremo attacco di galanteria, può più impedirsi di chiamare signora - si guardava allo specchietto retrovisore non riconoscendo più una parte così appiccicata della sua consueta pelle? Cos'era successo perché quel pezzo di sé cadesse con un tonfo sordo nella discarica dell'indifferenziato non più?

Occorre - forse - guardarle indietro, per provare a capire, a spiegare?


Tinni ha trascorso stretta nella solita gabbia di incombenze estive e materne tutta la prima parte di quella giornata di svolta. Svegliata dagli irriducibili ritmi altrui (il mio orologio scrive che sono le o-t-t-o: quindi bisogna alzarsi, dai), ha costruito colazioni improbabili sul funambolico filo del non ho fame, architettato occupazioni creative, contattato senza risultato manciate di madri scolastiche (siamo al mare fino a fine agosto, ma vediamoci appena rientriamo, dai), rinunciato a varcare la soglia salvifica della porta (no: non mi va di uscire, stiamo qui a giocare, dai) consolato sconfitte, incoraggiato trionfi, colorato una mezza dozzina di riquadri di pimpa (ancora uno rosa, dai), inventato pranzi e pungolato pisolini che apparivano come miraggi. 

Poi, piena di un'urgenza dolorosa ed esausta, di fronte all'ultimo dai, anche se solo di un millimetro più lagnoso dei precedenti, ha sgonfiato ad un tratto tutta quella bolla di maternità performativa ed è, semplicemente, scoppiata. Ha pianto e ha urlato. Di nuovo. Come tutti gli altri giorni di incombenze estive e materne. Come ogni volta che si trova a passare più di quattro ore consecutive con quello che la natura classifica ostinatamente come amore incondizionato e che lei, invece, sente - specie d'estate, specie intorno alle cinque di un pomeriggio ancora tutto da intrecciare - come un inequivocabile ed inflessibile carceriere.

Quanto può fare schifo - in una scala paramedica che comprende i ragni e il nome di una malattia incurabile sopra allo schermo del proprio fascicolo sanitario - sentire che ti fa schifo fare quello per cui ogni molecola del tuo essere più intimo sembra essere stata progettata?

E allora Tinni si è stufata: di fare schifo e di sentirsi uno schifo; e lo ha fatto un millimetro di più di tutte le altre volte precedenti. 

Tutti fuori, basta - ha intimato con una voce che le usciva da chissà dove - Via di qui! 

Voleva che, per una volta al mondo, le pareti vuote del suo involucro esistenziale rimbombassero come quelle di una vecchia casa a fine trasloco: senza epiteti, senza dai, senza 9 luglio. Una stanza desolata e basta. Che non fosse riempita più. 

Un male cane, togliersi tutti quegli strati di pelle. Una cosa assurda e contro natura. Pensi per mesi interi che spogliarsi da ogni idea di te sarà meglio di una doccia fresca ma da quel rubinetto esce un liquido che ustiona e corrode. 

Ma ormai la scopa era entrata in funzione, furiosamente: nessuno veniva risparmiato. Nemmeno i video strappacuore in cui loro due insieme appendevano palline all'albero di Natale con il sottofondo di Čajkovskij. 

Sarà stato in quel momento - mi pare ormai l'unica spiegazione possibile - che la fottutissima fobia dei temporali avrà messo incautamente il naso fuori dal suo eterno nascondiglio (forse uno starnuto per la troppa polvere) e la ramazza dell'anima, individuandola, l'avrà accompagnata senza tanti fronzoli all'uscita di emergenza più vicina? E lei, dall'alto della sua immemorabile presenza ai margini di quell'ecosistema, avrà tentato di giustificarsi? Avrà provato ad imporsi attaccandosi al ritornello del senza di me metterebbe in pericolo se stessa e gli altri? Ma gli ordini di sbaraccamento, questa volta, erano stati impartiti con una severità dolorosa che non lasciava scampo. E la fobia aveva starnutito una volta di troppo.

Poche ore dopo, quando suonava il campanello per la sua melodrammatica entrata in scena, sappiamo tutti com'è andata a finire.

Quanto disgusto rabbioso per ciò che si è diventati occorre accumulare per cancellare paure ataviche come tuoni, grandine, vento o, a pochi metri da noi, il rifiuto di rispondere alle domande dell'esame orale di maturità?


Dal giorno delle previsioni meteo scarsamente attendibili è passata ormai quasi una settimana. Di temporali ne sono arrivati almeno un altro paio e la prova del nove lo ha sancito in via definitiva: Tinni non se la fa più sotto quando scorge i primi lampi. Il suo retrobottega ci ha messo poche ore per riempirsi di nuovo di forme - materne e non solo -, ma quel singolo brandello di carne sgomenta è scomparso. Forse per sempre.


(Così scomparso che, a pochi giorni di distanza, per allenare una strafottenza di cui non si pensava capace, sotto l'ennesima bufera Tinni pedalava così spavalda e veloce da scivolare, e poi cadere, e sbattere la testa sul marciapiede finendo dritta al pronto soccorso: ma questa, miei cari lettori (?), è un'altra storia...)


venerdì 20 giugno 2025

Gonne (dialoghi tra)

Il giorno della prima prova dell'esame di maturità del 2003 Tinni indossava una gonna lunga fino alle caviglie, rosa con i fiorellini azzurri, di tessuto leggero ed increspato. Si trattava di uno dei suoi primi e goffi tentativi di uscire dal coro della moda modenese e di costruirsi - bottone su calzino - un'anagrafe vestiaria che fosse un po' più soltanto sua (e della sua paziente madre, che l'aveva confezionata a partire da uno scampolo di anonima stoffa comprata al metro). 

Che cosa indossasse, invece, il giorno della prima prova dell'esame di maturità del 2017, e del 2018, e del 2019, e poi di nuovo lo stesso giorno del 2022, del 2023 e del 2024, Tinni non se lo ricorda.

Ma sa, con un certo grado di convinzione, che anche il giorno della prima prova dell'esame di maturità del 2025 ha indossato una gonna leggera e lunga fino alle caviglie (non rosa, però: verde).

Uno dei pochi poteri magici conferiti dal fatto di poter svolgere un numero infinito di volte l'esame di maturità - oltre al quarto d'ora di notorietà su whatsapp, nel pomeriggio del tema, quando tutti, anche i più lontani conoscenti, ti scrivono per chiederti un parere sulle tracce uscite - è che, ogni anno, torno ad intravedere quella gonna rosa a fiorellini azzurri: la vedo svolazzare per qualche attimo tra un banco e l'altro, quando un alunno allontana la sedia dal posto per sfruttare la sua manciata di attimi di bagno.

Ma è questione di secondi: e anche se mi alzo dalla postazione imponente dei docenti e percorro quei corridoi di tensione facendomi largo tra tremori e raccoglimento; anche se approfitto di un posto lasciato vuoto dal primo che ha ceduto alla stanchezza ed è uscito poco dopo la terza ora; anche se mi siedo in mezzo a quei volti sudati e provo a respirare la loro stessa aria di ora o mai più, la gonna rosa increspata a fiorellini non la vedo più.

Mi resta la gonna verde di raso, comprata l'anno scorso ai saldi: indubbiamente più elegante, valorizza in modo molto più efficace la mia silhouette, al tatto è più confortevole e nessun armocromista al mondo potrebbe preferirla a quella rosa confetto. 

Però.

Quando sei adolescente fin nel midollo, e la sofferenza angosciosa del domani ti si avviluppa addosso come un sacco del pattume, non sussurra anche, nello stesso momento, al tuo cuore che tutto appare ancora possibile?

E' forse da pazzi invidiare quelle mani nervose e pallide che stringono le penne fino a fondere sudore e inchiostro - e il tutto lascia una scia di fatica impotente sul foglio ormai stremato? Quelle stesse mani candide, senza bruciature del tempo, che ancora non sanno di chi stringeranno i palmi tra loro e che quindi possono rispondere, chiedendoselo, "chiunque"?


La gonna rosa a fiorellini azzurri era nel mio armadio anche nei mesi in cui, per le prime trepidanti volte, prendevo in mano un volante e provavo a guidare. All'epoca avrei dato qualsiasi cosa per essere sola, dentro quell'abitacolo; senza mio padre urlante e nervoso, senza istruttore, senza esaminatore: solo io e la mia borsa, appoggiata come i grandi sul sedile di destra. E poi, da un giorno all'altro, era stato così. Tinni guidava con la sola compagnia della borsa di tela dell'equo e solidale e improvvisamente si insinuava - tra le pieghe increspate della sua gonna rosa - il desiderio che, invece, sul sedile del passeggero ci fosse Qualcuno. Passavano i mesi, placidi e studiosi, e tutto ad un tratto Tinni si ritrovava coi palmi sudati e la tremarella a sorpassare due camion di fila sull'autostrada del Brennero, mentre al suo fianco - proprio lì dove lei lo desiderava - sedeva Qualcuno che le urlava di non rallentare, MAI!, e che al contempo si rifiutava di prendere il suo posto perché questa è la vera parità dei sessi. E allora, di nuovo, quel desiderio lancinante, quasi di aria: perché non posso esserci io, ogni tanto, seduta di fianco al volante, mentre Qualcuno guida sereno? Di mesi questa volta ne passavano un po' di più, ma anche in quel caso, dopo un'attesa come di uva matura, eccolo lì: ecco Qualcuno che guidava sempre lui, in autostrada, senza velleità femministe né rimostranze smozzicate e però Tinni a quel punto volgeva lo sguardo all'indietro e si chiedeva, come forse avrete già capito, ma non sarebbe più bello starsene in tre, qui dentro alla panda rossa? E la panda, paziente e puntuale, si prestava ad accogliere sul sedile posteriore un seggiolino per neonati dal montaggio quasi paragonabile a quello della Tour Eiffel, e si immaginava così che, finalmente, avrebbe visto la sua padrona guidare contenta. Macchè. Il neonato in questione rendeva quei viaggi un'esperienza molto simile all'inferno: ogni decina di chilometri, all'inizio, occorreva accostare e allattarlo. E poi, quando le parole prendevano il posto dei pianti, Tinni non poteva più nemmeno ascoltare la sua musica in pace: a regnare indisturbati erano ormai mp3 di fiabe, domande a raffica, rimostranze e richieste incessanti di attenzione. Quanto avrei dato, allora, per essere sola, dentro quell'abitacolo: senza figlio, senza marito, senza ruoli, senza liste né scadenze. Solo io e la mia borsa - di marca francese - appoggiata come gli adolescenti sul sedile di destra.

Come si fa ad accontentarsi, a capire che ciò che abbiamo è abbastanza per la felicità? - scriveva un mio alunno su una strisciolina di carta, all'inizio di questo anno scolastico, poco dopo che avevo chiesto loro di domandare alla Luna - la stessa luna muta del pastore errante dell'Asia - ciò che di più importante avevano nel cuore e poco prima che infilassi tutti quei foglietti in una vecchia scatola da scarpe, sigillandola e dimenticandomela fino a qualche giorno fa. 

La gonna verde di raso ha reso un po' più di giustizia alle mie gambe tozze, questo forse sì, ma non mi ha trasformato in Luna, né tantomeno in divinità. Però la settimana scorsa guidavo all'alba verso il mare e avevo deciso - contrariamente all'ultimo desiderio espresso tra quelle pareti - di portarmi dietro anche Guido, per la prima volta, all'interno di un mio piccolo rito tanto prezioso quanto fugace. Ero in autostrada con i palmi sudati e la tremarella, e per evitare il consueto inferno prima di partire mi ero fortemente raccomandata silenzio e obbedienza (signorsì signore - aveva risposto lui come fa quando capisce che la posta in gioco è più alta del normale). Guidavo quindi la panda grigia zigzagando tra camion e visioni di morte spiaccicata e all'improvviso mi rendevo conto che, a dispetto del passeggero sul retro, un'irreale quiete regnava dentro quel piccolo mondo di sedili. Sbirciavo allora nello specchietto e intercettavo il volto di mio figlio: prima concentrato sul panorama e poi, in un istante, aperto in un sorriso intenso e raggiante.

Sei felice, Bogigio? Chiedevo in qualche anfratto di spazio tra un sorpasso e una coda.

Sì, perché mi è venuta in mente la scena di Toy Story quando il dinosauro gioca al computer: mi fa molto ridere.

Ecco allora cosa risponderebbe la gonna di raso verde, oggi, alla domanda muta ed eterna che di certo, potendola formulare, le farebbe la gonna rosa a fiorellini azzurri, sorella vicina e diversa delle decine di pantaloni che le siedono accanto, anno dopo anno, su quei banchi sdruciti. 

Non sempre avrai Qualcuno - al volante, sul sedile del passeggero, su quello posteriore o in tutti gli spazi che la tua panda potrà accogliere senza violare il proprio tagliando; ma basteranno quattro pareti aperte, il panorama che scorre, un paio di occhi per potertici perdere dentro e, soprattutto, una scena schietta e pura, nella sua semplicità, pronta per essere estratta dal mazzo dei ricordi. Quella sarà, allora e per sempre, la tua felicità.



giovedì 12 giugno 2025

Dove mai si va a ficcare il diritto. (cit)

Era il settembre 2019 e no, Tinni ancora non aveva ricevuto in affidamento alcuna corazza d'ordinanza: la sua pelle, benché abbrustolita dal sole del viaggio di nozze, era dunque piuttosto vulnerabile alle ferite e ai contraccolpi dell'esistenza.

Era il settembre del 2019 e poco tempo prima di allora diverse misurazioni le avevano garantito che al suo interno stava prendendo forma una nuova vita. Nessuna misurazione, però, e nessuna persona esperta dei fatti aveva potuto o saputo avvisare quell'euforica ed inconsapevole portatrice di vita che le cose, in quel campo, non sempre funzionano come durante i test del tipo di scuola a cui lei era stata abituata.

Era il settembre del 2019, quindi, e fino a pochi giorni prima Tinni era convinta di essere incinta; quella mattina, invece - di colpo, come solo le notizie raccapriccianti sanno arrivare - a Tinni era stato detto che, forse, semplicemente, non lo era più.

Come si trascorrono ventiquattro ore di attesa nelle quali il tuo corpo decide - microgrammo ormonale dopo microgrammo ormonale - se ha cambiato idea e preferisce spaccare in mille pezzi i piani che il suo padrone ha organizzato con la sola collaborazione del proprio cervello?

Nel caso di Tinni, si telefona ad S. e le si chiede di portarla con sé ovunque abbia programmato di andare. Ed S., che di figli ne ha due e, insieme ad essi, una serie di eventi pratico-organizzativi a cui presiedere, risponde al cellulare dopo soli due squilli e le garantisce che l'aspetta di lì a dieci minuti.

Cominciava così uno dei pomeriggi più amari, fragili e vischiosi della sua recente esperienza di vita. Tinni barcollava come colpita da un pugno sleale reggendosi terrea al braccio di S., che se la portava dietro implacabile al parco, alla posta, in rosticceria e, alla fine, nel supermercato dietro casa, per comprare un paio di quelle ultime cose che mancano sempre. 

S. e Tinni, seguite a ruota da Viola - sei anni - e Gioele - tre - percorrevano quindi alcune corsie e un paio di banchi frigo per poi approdare alla cassa; e mentre la nostra protagonista sentiva letteralmente scivolare fuori da sé una vita densa e collosa di sogni, S. aveva detto alla cassiera: scusami, sai, ma i miei figli hanno fatto un po' di casino. Le merci, in effetti, non erano più molto in ordine lungo il loro nastro trasportatore, e forse qualche pacchetto di patatine era stato aperto almeno parzialmente, ma a centrarmi come uno schiaffo fu quell'aggettivo possessivo che forse S. aveva usato diverse altre volte prima di allora ma al quale non avevo mai attribuito la stessa dolorosa e straziante importanza. 

I miei figli. I suoi. Quelli che lei aveva saputo accogliere e coltivare e lentamente plasmare nel suo grembo felice e che io, invece, stavo lasciando sgusciare via, senza poter opporre alcuna resistenza.

Trasudava invidia, oltre che sudore, il mio braccio letteralmente avvinghiato al suo mentre il sole del settembre 2019 ci accoglieva di nuovo in tutta la sua tempra fuori dalle porte scorrevoli del supermercato: invidia, sudore ma anche struggente bisogno che lei restasse lì, senza essere altro che S., la mia amica S., con due figli e due borse della spesa, a reggermi e a fare finta che il giorno dopo sarebbe stato uguale a tutti i giorni precedenti.


Ed improvvisamente era già l'ottobre, e il novembre, e poi ancora il dicembre dell'anno successivo e Tinni, alla fine, una vita l'aveva davvero creata: non quella del settembre 2019, non quella del supermercato con S., non quella su cui le chimere adolescenziali l'avevano indotta a fantasticare. Rimanere incinta per davvero era stato qualcosa di molto più simile ai brandelli di stanchezza vittoriosa dell'ultimo giorno di una guerra civile. Però era successo: Tinni aveva un figlio suo.

Però suo figlio non dormiva: quasi mai più di due ore consecutive. Tinni assisteva, così, di nuovo impotente, allo sgretolarsi dei suoi ritmi circadiani e delle sue scolastiche certezze e, per di più, si confrontava ancora una volta con l'invidia. Eh sì: Tinni tornava a trasudare questo sentimento che forse più di ogni altro la caratterizza perché, a dormire (quasi) tutta la notte, (quasi) da subito dopo la nascita, era una figlia non sua, ma della sua amica L.

Caterina, venuta alla luce una manciata di mesi prima, imperterrita e spavalda, come se avesse letto di nascosto un manuale di istruzioni celato alla gran parte dei suoi coetanei, si infilava da sola un dito in bocca e si addormentava in autonomia, mentre - nelle fantasie di Tinni - i suoi genitori si godevano finalmente una vita che a lei era stata per sempre strappata. 

Di nuovo quel maledetto aggettivo possessivo: sua figlia dormiva; sua figlia era brava; il mio no.


Ma forse i figli vengono al mondo per insegnarci loro qualcosa; e soprattutto per farlo con i tempi dilatati, respirati, accumulati nella pazienza di un granaio che vede crescere inesorabile una montagna di chicchi, uno appoggiato sull'altro. Molti anni sono passati da quando ho tenuto Viola in braccio per la prima volta (dopo essermi ben disinfettata le mani) o mi sono dedicata interamente a lei durante una serata al ristorante in cui i Grandi parlavano di formula uno o di ristoranti stellati; non lo sapevo, allora, ma poco alla volta, briciola su briciola, stava diventando anche mia. Gioele mi ha concesso il suo cuore dopo un tempo ancora maggiore e una diffidenza un po' mammona che da sempre lo hanno contraddistinto, ma pochi giorni fa, in piscina, è stata la mia presenza che ha richiesto a gran voce per fare "un tuffo a bomba", insieme, al suo via. Caterina, dopo che ha finito di consultare il manuale che solo lei aveva in dotazione, si è accorta che, nonostante tutta la sua temerarietà, tuffarsi con la mano di Guido aveva un sapore che nessun dito in bocca le aveva ancora offerto. E quando l'ho sentita reclamare il suo diritto in proposito, scegliendo proprio mio figlio come compagno di lancio - l'altra mano le serviva rigorosamente per tapparsi il naso - è stato come se all'improvviso il numero delle mie mani si fosse moltiplicato per quattro. 

E lì, a bordo piscina, prima di tirare il fiato e volare in acqua, mi sono girata un attimo e l'ho visto: il mucchio di chicchi finalmente divenuto granaio.

Per raccontarlo e capirlo meglio chiudo con una lunga metafora che viene da una disciplina non mia (ancora una volta), ma di qualcuno che - così come S. ed L. mi hanno dato i sentimenti per impastarlo - mi ha spesso regalato le parole per dare al mondo intorno a me una veste chiara e definita.

Nell'antico diritto quiritario, nel fondo più profondo della storia romana che precede tutto ciò che troviamo nei libri, c'era una volta un istituto giuridico chiamato consortium èrcto non cìto

"Consorzio tra eredi", si potrebbe tradurre. Quando più fratelli si ritrovavano ad ereditare un patrimonio paterno, infatti, potevano scegliere che questo gruzzolo - di cose, in epoca romana, ma forse anche di persone, se ci pensiamo bene - fosse gestito in comune da loro “attuando una sorta di società universale”. In tal caso "il diritto di ciascuno dei proprietari non si considerava come rispondente ad una frazione ideale dei beni paterni, bensì come una contitolarità solidale sul patrimonio": nulla era più, quindi, mio o suo: tutti erano proprietari del tutto.

Ebbene forse i nostri figli sono piombati nelle vite dei loro genitori proprio per insegnarci come funziona un istituto giuridico di epoca pre-repubblicana: forse loro erano là, nascosti da qualche parte, mentre gli antichi Romani alzavano la mano destra e pronunciavano il giuramento solenne che trasformava le loro frazioni in un tutto fraterno. E ce lo hanno voluto raccontare: ecco la nostra più preziosa eredità.


I titoli di coda di questo lungo film di parole ritraggono una Tinni che, oggi, ha meno paura di dormire troppo poco e che forse proprio per questo riesce - alle volte - a far addormentare tra le sue braccia l'ultima arrivata nella società universale dei figli: Beatrice, sorella di Caterina ma molto lontana dai suoi ritmi incrollabili di sonno e di veglia. Alle volte, finalmente libera dall'angoscia che le faceva considerare ogni risveglio come un fallimento, Tinni le canticchia all'orecchio una canzoncina che solo loro due conoscono e Beatrice si rilassa così tanto che chiude gli occhi beata oppure, più prosaicamente, le fa la pipì addosso - perché siamo in spiaggia e il pannolino non serve: e tutti noi, intorno, in mezzo ai nostri figli, ridiamo.


venerdì 6 giugno 2025

Corazze

 – Io però – disse Elena, – devo dire che nella corazza ci sto bene. Non è che io lo abbia letto sui giornali femminili: ci sto bene proprio, come si sta bene a casa.

Nel racconto Protezione Primo Levi magistralmente immagina uno scenario distopico in cui gli esseri umani si rintanano - o si lasciano rintanare - dentro pesanti armature di metallo. A cena, una sera, Marta - che è la padrona di casa e ha invitato una coppia di amici - avanza il sospetto che si tratti in fondo di poco più che un bisogno indotto; Elena però, che se ne è appena fatta commissionare una su misura, non sa e non può raccogliere alcuna provocazione in tal senso anche perché, come afferma efficacemente poco dopo

(...) mi sento protetta come in una fortezza, e alla sera quando vado a letto me la tolgo malvolentieri.

– Protetta contro che cosa?

– Non so: contro tutto. Contro gli uomini, il vento, il sole e la pioggia. Contro lo smog e l’aria contaminata e le scorie radioattive. Contro il destino e contro tutte le cose che non si vedono e non si prevedono. Contro i cattivi pensieri e contro le malattie e contro l’avvenire e contro me stessa. Se non avessero fatto quella legge, credo che mi sarei comperata una corazza lo stesso.


... Che cos'è la letteratura se non il doppio gesto di impugnare la matita per sottolineare un passo e - contemporaneamente - di inclinare leggermente la medesima frase per fare in modo che quel frammento di specchio rotto rimandi un'immagine - magari distorta, imprecisa, annebbiata - di noi stessi in quel qui ed ora?

Elena e la sua corazza iper accessoriata mi sono tornate alla mente in questa salatissima ultima giornata di anno scolastico e, per un attimo, hanno fornito la risposta altrimenti inaccessibile ad un dilemma che mi attanagliava già da qualche giorno.

Perché sei così triste, il sei giugno di ogni giugno e per tutto il giugno che ne consegue, fino a quando soltanto l'acqua del mare Adriatico è in grado finalmente di lavare via ogni particella scolastica dal tuo corpo?

Le budella cominciano ad attorcigliarsi già quando il caotico maggio in rincorsa cede il posto alla festa della Repubblica: il sorriso si aggancia come maschera vuota ogni mattina ma, poco più indietro, fa capolino quel sapore vischioso che, puntuale, ogni sei di giugno, invade poi come una macchia di benzina l'asfalto del tuo palato. Nemmeno le frisk lo sanno domare.

Perché?

Perché sei triste, che cominciano i vostri immeritati ed imperturbabili "tre mesi di ferie"? - chiederebbero gli amici di sempre, dandoti di gomito con quel loro fare canzonatorio e fraterno.

Ma come - si stupirebbe trepidante mia madre - non realizzi che da domani per fortuna potrai nutrirti meglio, senza ingoiare panini di fretta e stordirti di caffè?

Perché ti disperi, ora che hai finalmente finito di correggere verifiche fino a tarda sera, e di angustiarti il lunedì per le ore di lezione da preparare quasi in apnea? Ora che non dovrai più litigare con genitori e voti, puntare la sveglia al buio, conquistare adolescenti riottosi? - direbbe il mio saggio marito, che di fare molte di queste cose praticamente non smette mai.

Perché piangi, mamma, proprio adesso che possiamo giocare a UNO tutti i pomeriggi insieme? - pronuncerebbe scandendo attento le sillabe mio figlio (e già il fatto che il bogigio compaia ora su questi schermi per la prima volta come un interlocutore senziente avrebbe di che asciugarmi ogni lacrima - tornei di UNO a parte).


Elena lo sa, il perché. E adesso anche io.

Ogni primo di settembre, entrando in quei locali che ancora faticano a rilasciare il caldo attonito dell'agosto emiliano, i bidelli, ritti sull'attenti, consegnano ad ogni insegnante una corazza nuova di zecca, pronta a combattere insieme a noi i successivi nove mesi di sortite scolastiche. All'inizio il segno bianco del costume si strofina fastidioso contro il metallo rigido, ma ben presto ciascuno si accoccola volentieri in quel guscio e, volenteroso e solerte, si dirige verso l'aula assegnata. 

La corazza è ogni anno della mia misura, ma veste leggermente larga, in modo tale da lasciare un po' di spazio tra il mio corpo e la cappa: ed è proprio in quello spazio - solo all'inizio lo percepisco come freddo e nuovo - che, giorno dopo giorno, cominciano a rimbalzare tutti i salve prof, tutti gli scusi, i posso, i lo prometto e i d'accordo, anche quelli pronunciati più controvoglia; tutti quegli sguardi, quotidianamente puntati sulla mia corazza, vi penetrano - non c'è corazza senza giunture - e cominciano ad ondeggiarvi dentro, come pendoli impazziti. La sensazione dura e metallica lascia presto il posto ad un confortante tepore, prodotto dal vibrare di infiniti sbadigli, mani che si levano, penne che cadono, appelli, sorrisi, appunti, ripassi, confessioni, richieste d'aiuto alla vigilia di una prova, fogli tesi, presi e distribuiti: tutto trova spazio in quell'intercapedine larga giusto l'ampiezza di una spanna, in cui la scuola scivola e si incunea per non uscirne più.

Non c'è bisogno di null'altro, dal primo di settembre al sei di giugno: nessun riscaldamento centralizzato, nessuna giacca particolarmente imbottita. Tinni e la sua corazza ripiena e vibrante di scuola percorrono ogni mattina la Nazionale per Carpi sentendosi a volte appesantite, quello sì, ma mai spoglie. Al ritorno, in mezzo al traffico dell'ora di punta, a volte il ronzio del materiale didattico-educativo che prorompe da dentro la corazza deve essere coperto da un po' di buona musica al massimo volume, ma il più delle volte l'intero ecosistema produce qualcosa che assomiglia più che altro al rumore bianco con cui si addormentano i bambini. 

Tinni è protetta dagli spifferi della vita e procede marciando al solo suono delle giovani voci che la cercano, la deridono, la implorano, la consultano, la tartassano e (non sempre) la ringraziano; quelle giovani voci vergini che, rimbalzando contro il suo ego e la sua corazza, sanno coprire il suono di un'altra voce, senza età, che altrimenti approfitterebbe del silenzio come una zanzara feroce.

Ed ecco che, di fendente in fendente, arriviamo al sei di giugno. Come appaiono improvvisamente evanescenti, tutti quegli insegnanti spogliati dalla corazza che camminano quasi esangui verso il cancello d'uscita, nella loro pelle diafana da tanti mesi non più esposta al sole. Il pallore dei loro visi si rispecchia nel bianco dei faldoni di verifiche disordinate che, come tante formiche operose, vanno archiviando diligenti negli appositi spazi. Le aule scolastiche sono ormai solo un'eco delle risate beffarde di qualche ora prima e gli insegnanti in fila si squagliano stremati dentro automobili e biciclette, smobilitando il loro campo.

E Tinni sente, per la prima volta dopo nove mesi, l'altra voce. 

L'altra voce appartiene a qualcuno che assai di rado è stato menzionato in questo spazio così sempre brulicante di vita e di respiro. Una voce senza volto, senza età, e senza riposo. Una voce che, semplicemente, ripete: morirai; moriranno.

Tinni semplicemente non ce la fa, a venire a patti con l'altra voce. Non può accettare che il percorso abbia un termine: né per lei, né per chi ama, accanto a lei. Non c'è letteratura, non c'è filosofia, non c'è neppure fede che possa avvicinarla al realizzare che quella - sì, proprio quella - è l'unica certezza di cui dispone.

C'è qualcosa di più simile alla morte - essenziale, ciclica, tangibile - di un gruppo classe che, decomponendosi in venti particelle singole, dal sette di giugno, semplicemente, non esisterà più? Non ne è forse un assaggio letale il fatto che, ogni anno, una nuova quintaELLE usurperà le sedie della precedente, allegra ed ignara di ciò che l'ha preceduta, senza che di volti e storie rimanga poco più che un fievole ricordo?

Insomma: giugno, a Tinni, ricorda la morte: come può non odiarlo con feroce tristezza?


Eppure. 

Eppure questo giugno è un giugno ferale come gli altri ma anche un po' no. 

Perché? Perché sono tornata qui

Perché ho riletto un migliaio di parole con occhi nuovi ed antichi e allora forse sì, tutte quelle parole scritte, digitate, sospirate, piante, sorrise - non altrui, ma mie - si sono cucite, anche a distanza di anni, una sull'altra, imbastendo trama ed ordito di un abito che tanto metallico non è, e neppure robusto. La stoffa si affloscia leggera, aderendo al mio corpo: non c'è nessuna intercapedine. Una vestaglia, insomma, più che una corazza; ma in questo giugno cupo e mortale posso provare a farmela bastare.