MOLTEPLICI INIZI.


A proposito di:

interculturalità - scuola - letture - frivolezze - risparmio - poesia - creatività - viaggi - pande - giardinaggio ... e bizzarrie varie.

lunedì 20 ottobre 2025

L'autorità


Entro in aula e distribuisco fotocopie. Oppure accendo la LIM ed avvio un filmato. Chiamo un ragazzo alla lavagna e gli affido gessi colorati. Mi insinuo con qualche pretesto a sentire la lezione di un collega.
Ogni scusa è buona per lasciare la cattedra e sedermi laggiù, in mezzo a loro: quaderno, penna e una gamba ripiegata sulla sedia. Meglio se in ultima fila, per non dare le spalle a nessuno. 
A volte, però, la magia è interrotta dal bussare di un bidello. Il mio debole avanti nemmeno si sente, là fuori, ma dopo pochi istanti la porta si apre comunque imperiosa. 
Lo sguardo esterno corre subito alla cattedra, ed esita trovandola vuota. Gli occhi si fanno sospettosi, spaventati, incerti. Che sta succedendo?
Ecco: l’autorità, per me, è quella cattedra sgombra e lo sguardo del bidello che la avvolge senza sapersi posare altrove; involucro impenetrabile ma cavo.

Eppure, dalla mia postazione infima e speciale, prima che qualcuno arrivi a spezzare l’incanto, distinguo qualcosa che alla cattedra, di solito, è precluso: lungo la via della scuola sono tornati a fiorire i topinambur, come ogni ottobre, imperterriti e incuranti del cemento che li sovrasta. Un ragno ricomincia paziente la stessa tela che, oggi pomeriggio, il bidello di turno puntualmente arrotolerà intorno alla sua scopa. Non è un po’ come assistere al ritorno implacabile del candelabro di Un’opera d’arte nello studio medico in cui tempo prima era stato deposto? Non vi sembra che, a volte, anche gli oggetti, gli insetti, gli steli d’erba esercitino la loro parte di silenziosa ma incrollabile autorità? 
Non lo so, se Cechov sarebbe d’accordo con me, ma sempre più spesso questa mi appare come l’unica forma di potere in cui volentieri mi accoccolerei.



martedì 14 ottobre 2025

A cosa serve un racconto – in 5 righe

Emma ha tredici anni e (quasi) sempre la mano alzata. Si è affacciata da qualche settimana all’oblò del suo primo anno di liceo e ci sono (quasi sempre) delle cose che non sa, non capisce o di cui vuole conferma. Paradigmi, scadenze, numeri di pagina. Emma ha letto diligentemente il racconto di Cechov Uno scherzetto – così lo traduce il suo libro di narrativa – e alla fine, manco a dirlo, alza la sua mano paffuta. “Ma quindi, prof, lui la stava prendendo in giro?”. La campanella si mangia il tempo della risposta, ma alla sua prof non sfugge che, mentre tutti i compagni se ne vanno incuranti, Emma resta ferma un attimo coi suoi pensieri e poi, all’improvviso, si gira verso l’amica esclamando: “Che gran bastardo!”. 


E se i racconti servissero a questo? Ad infilare nell’astuccio di Emma – e un po’ in quello di tutti noi – oltre ai punti interrogativi e alle matite d’ordinanza, anche una manciata di punti fermi, esclamativi e penne a sfera?



lunedì 13 ottobre 2025

Descrivete Cechov in 5 righe

 Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura…

Sì, lo so, questo non è Cechov, ma chiedo in prestito a Dante i suoi primi due versi perché mi pare che l’eco di quel nostra e di quel mi si propaghi, oltre ogni legge fisica del tempo e dello spazio, fino alla Russia del 1898. Mi pare che i personaggi di Čechov ci dicano di essersi persi in una vita che non è solo la loro, ma anche e soprattutto la nostra: di noi che moriamo sotto i colpi di uno strisciante autoconvincimento, che ci aggrovigliamo in un amore illogico, ci culliamo nella fallacia di una speranza, o, alle volte, come gli abeti in fila nel bosco a Natale, semplicemente aspettiamo di scoprire chi sarà il prossimo a cadere. E mi pare dunque che le vite di uomini e alberi siano su quelle pagine per mostrarci tutto ciò che – nelle nostre, di vite – non funziona, non quadra, non si incastra. 

Senza alcuna prospettiva di aggiustarlo. 

Proprio al contrario di come fa Dante – con il quale alla fine saliamo di sopra a vedere Dio – , ma non per questo in modo meno potentemente universale.



mercoledì 17 settembre 2025

Motti

Se ci ripenso – se ripercorro all’indietro la mia storia d’amore con la scuola alla ricerca dei loro volti – ricordo facce, quello sì, ma poco altro. Mi sono scivolati accanto senza che li sfiorassi mai, un po’ come il loro popolo nei nostri libri di storia: da sempre tagliato, riassunto, compendiato, anche un po’ temuto. Quello che è certo, è che li ho sempre capiti poco, gli studenti cinesi. Cosa si nascondeva, esattamente, dietro il loro millenario riserbo? 

Pensavo che non lo avrei saputo mai; anzi, forse non mi interessava affatto saperlo, e poi, stamattina, alla porta della mia vita ha bussato lui: Hui Fen. 
(“Come devo chiamarti?” – “Hui Fen, professoressa”)

Fresco di stampa come tutti i suoi compagni di prima.

Dovevano presentarsi agli altri seguendo una scaletta data e, come ultimo punto del discorso, volevo che recitassero alla classe quello che poteva definirsi come “il motto della loro vita”.

Hui Fen non si è tirato indietro, quando gli altri tentennavano perché avevo detto loro che dovevano offrirsi volontari uno dopo l’altro; non ha nascosto il suo viso rotondo dietro al banco di un’antica ritrosia, e un sorriso nuovo si mangiava via, a morsi voraci, il suo zoppicante accento cinese mentre ci raccontava gioie, paure e passioni e, poi, come da copione, terminava il suo piccolo e dignitoso monologo. 
Ci riesco anche se sono straniero”. Ecco il motto che aveva scelto per presentarsi.
E vorrei proprio che poteste sentirlo, il modo inceppato e commosso con cui metteva insieme i pezzi di questa consapevolezza potente e calibrava ogni parola balbettandola e riordinandola nel caos della sua vita duplice, ricca e difficile. 

Il mio cuore tinnico si spezzava in più punti per poi ricucirsi più pulsante che mai. Ti prego, Signore delle scuole di ogni ordine e grado, fa’ che capisca il latino e che io non debba mai dargli un’insufficienza! Ma era già il turno di Benedetta, che ama i cavalli e odia caricare la lavastoviglie, e non c’era più tempo, e le parole si accumulavano accanite una sull’altra tessendo invisibili fili dentro quella classe ancora nuda.



Dopo che tutti si sono raccontati e che gli altri hanno preso appunti sui compagni, di solito apro la lavagna della LIM – così c’è più spazio – attacco la cassa al computer, apro una playlist inqualificabile di canzoni romantico-introspettive e chiedo a ciascuno di alzarsi in silenzio e di scrivere due cose altrui che lo hanno colpito.

Di solito va così, e un po’ è andata così anche stamattina. Di solito, però, sono la prima ad alzarmi e a cominciare questo gioco di risonanze nel vuoto. Rompo il ghiaccio e conto che ci sia qualcuno, dopo di me, che ama fare lo stesso. Di solito succede.
Che cosa avrei scritto, se una zanzara carpigiana (e quindi per sua natura implacabile) non avesse scelto proprio quell’istante per ronzarmi intorno con le sue promesse di letali ed impronunciabili malattie? Di certo avrei ricopiato il motto di Hui Fen, sentendomi la solitaria paladina degli ultimi che lancia il suo grido d’amore in una stanza di cuori rivolti altrove.

Di certo lo avrei fatto, ma non è andata come di solito. 

Sono stata preceduta. Gabriele – bello, biondo, ben vestito, atletico e sorridente – si è alzato prima di me e ha scritto alla LIM ci riesco anche se sono straniero
Poi altri hanno aggiunto altro. Altri si sono alzati e riseduti. Ci sono stati altri motti, altre paure, altre passioni condivise. E io ero sempre lì a dare la caccia alla zanzara tigre. Ad un certo punto Giulia ha chiesto, pacatamente: possiamo scrivere anche due volte la stessa cosa?
Certo. 
Giulia voleva copiare anche lei il motto di Hui Fen. 
E dopo Gabriele e Giulia ci sono stati Lorenzo, Matilde e Gaia.
Al suono della campanella ci riesco anche se sono straniero campeggiava cinque volte sulla lavagna, e nessuna di queste vestiva la mia grafia. 

E allora raccontiamo questa storia a chi ci chiede come sono gli adolescenti oggi. Raccontiamogli che non ne ho le prove ma secondo me dieci anni fa Gabriele, Giulia e Lorenzo avrebbero copiato altri motti, sulla LIM, e quello di Hui Fen sarebbe scivolato via accanto alle loro vite bionde e vincenti senza nemmeno sfiorarle.
Raccontiamo in giro che a volte i ragazzi sono migliori di noi, o anche solo più veloci ad alzarsi e a ignorare le zanzare.

Ma raccontiamoci anche, immaginandola sottovoce, la cosa più bella di tutta questa storia, e cioè il suo finale: Hui Fen che se ne torna a casa silenzioso in corriera, e poi a piedi dalla fermata del bus fino alla porta del ristorante dei suoi genitori, trottolando sotto il peso buono di quella lavagna traboccante solidarietà.

lunedì 28 luglio 2025

Rifrazioni

E poi un giorno la bidella Anna, incrociandomi chissà come all'uscita della sala insegnanti, aveva mormorato sorridendo - più tra sé e sé che rivolgendomi effettivamente la parola - ho finalmente ritrovato il nostro dymo, non ci speravo più

L'oggetto agognato, in effetti, era lì: azzurro tra le sue mani bianche. Un dymo come quelli di una volta - non digitale, senza schermo, con i soli caratterini scorrevoli lungo la totalizzante rotella. Un oggetto incantevole, atavico, che ritrovare perduto è sicuramente, in ogni tempo, un piccolo miracolo.

Ma funziona ancora? Lo ha provato? Le chiedevo allora io. 

Scopriamolo insieme! Una volta lo usavamo per attaccare i nomi sui cassetti dei prof... Cosa vuole che le scriva, sul suo cassetto, adesso che il suo nome già c'è? Mi rispondeva la bidella Anna, alla quale quell'inatteso recupero aveva risvegliato una gentilezza da tempo sopita.

Tra noi si era incuneato un attimo di esitazione silenziosa. Perché io, la parola magica che avrei voluto tatuare sul mio misero armadietto sempre difettoso, quella che sarebbe stata il mantra convinto prima di prelevare verifiche sanguinanti o di riporre il cucchiaino del caffè sempre ancora un po' appiccicoso, non avevo mica tanti dubbi di quale dovesse essere. Ma lei - mi chiedevo in quell'intercapedine d'incertezza - avrebbe capito, annuito, digitato o piuttosto avrebbe calpestato il mio tinnico vessillo con quell'atteggiamento sprezzante che altre volte mi ero vista agilmente recapitare?

Ma l'occasione era troppo ghiotta perché non dovessi approfittarne, e lo sguardo di Anna troppo bonario perché potessi non tuffarmici, per cui avevo inspirato e detto, molto risolutamente:

Vorrei che mi scrivesse amore

Un'occhiata perplessa e di parziale scherno me l'ero comunque guadagnata e, anzi, manco avevo capito se la richiesta sarebbe effettivamente andata a buon fine. La signora Anna si era voltata quasi mandandomi a quel paese e le nostre traiettorie adulte in un mondo adolescente avevano continuato a procedere imperterrite verso lidi ignoti l'una all'altra. 

Era stato solo molte carte igieniche, lavagne, stracci, registri e caffè dopo che avevo intravisto nuovamente la sua massa buona di capelli scuri ai margini del mio campo visivo, già un po' annebbiato per la fame della quinta ora. Si avvicinava inequivocabilmente verso di me. Mi porgeva qualcosa. Se ne andava veloce e sorniona. In mano mi ritrovavo un ritaglietto di dymo con su scritto, letteralmente "... e amore sia".

E così, da quel giorno, sul mio cassetto di insegnante campeggiano un cognome e l'etichetta della bidella Anna con sopra incisa la parola amore.

E tutto questo aneddoto, nelle mie intenzioni originali, doveva rappresentare soltanto la breve e svolazzante premessa del post odierno, solo che il dymo e la signora Anna si sono presi uno spazio tutto loro ed è stato bello e giusto così, forse. A me, in fondo, servivano solo per introdurre il concetto che l'amore, nell'idea di scuola di Tinni e anche nella sua pratica, è proprio il sottofondo musicale di cui non si può fare a meno. 

Tinni ama i suoi studenti - tutti - e non fa nessuna fatica ad essere così. Non lo dice, non lo scrive e non lo compie per retorica o per vezzo. Se deve isolare una cosa che sa di saper fare bene e facile, è proprio quella. Amare gli adolescenti dai quattordici ai diciannove anni: quelli che prendono sempre 4 e quelli che prendono sempre 10, tutte le sfumature in mezzo comprese. Primini impacciati e maturandi ansiosi. I ricchi carpigiani e i disperati che si svegliano alle 5.55 per prendere la corriera da Moglia. Purché siedano dietro un banco. Purché abbiano un cognome ed un nome allineati ordinatamente in una colonna dentro all'applicazione classeviva

Ma come fai?! Io li ammazzerei tutti, i ragazzini. Ci vuole davvero una vocazione.

Se la maggioranza di coloro a cui parlo del mio mestiere ribattono all'incirca così, la stessa nutrita fetta di umanità volterebbe forse lo sguardo imbarazzato nel sentirmi confessare che io, quell'amore pieno e vivo lì, quello che germoglia semplice dalla cattedra, faccio invece tanta fatica a sentirlo per qualcuno che, per sua stessa natura, dovrebbe ispirarmelo.

Che fatica, amare mio figlio Guido. Una vocazione, mi sembra ci voglia: vocazione che più controllo e meno mi pare di avere in dotazione. 

E così la vita di Tinni aveva continuato per anni su due binari paralleli e rigorosamente stagni: l'amore scolastico a manate semplici, quello materno a gocce rade e gravose.

Fino ad oggi: un giorno che di scolastico non possiede praticamente nulla, ed è nascosta proprio lì, forse apposta, la sua forza impensata.

Oggi pomeriggio un "alunno non-più-tale" - uno di quei rari allievi con il quale ci siamo piaciuti forse un pizzico in più del consentito, e poi anche un po' odiati, e poi chiariti, e sempre, comunque, amati - ha deciso di riesumare dalla sua cantina, e spolverare, e poi montare, e poi inscatolare con premura un'antica e turrita caserma dei pompieri lego. E perché? Perché quello scatolone potesse prendere la via di una panda - ancora lei - e arrivare dritto e silenzioso fino al terzo piano senza ascensore della casa della "prof non-più-tale" che tanto il suo padrone aveva amato, e in particolare fino ad una delle molteplici stanze di quella casa, che, lo avrete capito anche da soli, non era certo la stanza di lei, bensì quella di suo figlio cinquenne. 

Ma chi lo ha detto che le rette parallele non si incontrano mai? A volte, quello sì, servono uno scarto, uno scambio, oppure una leva dritta e aperta sulla vita. Oggi pomeriggio le rette parallele della vita di Tinni si sono conosciute e trovate e - come sempre accade quando le ferree leggi della matematica vengono imprevedibilmente violate - hanno preso parte ad un piccolo miracolo.

Un miracolo piccolo e potentissimo: come ritrovare un vecchio dymo funzionante nel caos di una scuola grande e polverosa. Oppure come quello di un bambino mammone che gioca da solo con i lego nella sua camera per ore e ore mentre la sua incredula genitrice cucina, e balla, e porta giù la spazzatura (ah, sei già tornata?) e addirittura scrive (almeno per metà) questo racconto, su di uno schermo che mai prima d'ora era stato aperto se non a buonanotte inoltrata. 

E allora forse tutto questo ci può insegnare - lui più di me - una cosa: che procurare giochi nuovi ai propri figli è un'ottima occasione di auto-intrattenimento? La camera già da tempo stracolma di oggetti sembra smentirlo.

Piuttosto, io credo, che l'amore parcheggiato sopra al mio cassetto della sala insegnanti e dentro alle vite di ciascuno di noi funziona un po' come l'eco di un raggio di sole allo specchio. Rimbalza. Stupisce. Scalda per riflesso. Cuoce senza bruciare. Possiamo pensare, lungo certi tratti della nostra esistenza, che il suo bersaglio non sia centrato, che quel calore stia andando disperso, che chi dovrebbe sentirlo non sia lì, al posto giusto. E invece no: ogni volta una diversa superficie riflettente sarà pronta a deviarne l'imprevisto; ci sarà sempre una finestra ben lucidata dall'angolo della quale il nostro occhiolino arriverà là dove deve arrivare, e poi anche, per rifrazione, un po' dentro di noi.


lunedì 21 luglio 2025

Caro Sofocle

Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante

di ferirci

  

C'era una volta, in una galassia lontana nel tempo e un po' anche nello spazio, Tinni alle prime armi con le ripetizioni di latino (e non solo); e c'erano una volta, seduti al suo fianco a respirare la stessa aria densa di ablativi assoluti, una sfilza di adolescenti un po' brufolosi e brontoloni che diventavano, verbo dopo soggetto, un pezzettino di lei. E c'erano anche: una panda rossa e canterina che trasportava l'una dagli altri praticamente tutti i giorni; una casa dentro una chiesa; un taglio di capelli asimmetrico; un blog e poche altre cose che, con gli occhi di oggi, mi pare si possa dire che stavano costruendo silenziosamente le radici di un albero enorme e inaspettato.

C'era una volta tutto questo groviglio didattico ed esistenziale ma, soprattutto, vorrei (ri)parlarvi del fatto che c'era una volta un allievo un po' speciale. 

M., il mio allievo cieco, che si era seduto accanto a quella Tinni sprovveduta per una decina di mesi - prima che il terremoto si portasse via le ultime due settimane di scuola, e di biennio (per lui) e di progetto pagato dal comune (per me). 

M., il mio allievo che proprio con il latino non riusciva ad entrare in sintonia - forse peggio di chiunque altro in quegli anni di tinniche soddisfazioni mendicate e potenti - ma non perché non volesse, o perché fosse innamorato, o perché lui doveva fare il tecnico e la madre non lo aveva saputo capire; non perché la sua prof gli chiedesse troppi paradigmi a memoria; non per colpa del compagno di banco e neppure del gatto, morto ormai troppe volte per giustificare compiti mai svolti.

M. non poteva proprio, lui, entrare in sintonia con il latino. E lo capisco (lo vedo) solo adesso, che, dai rami più alti di quell'albero enorme e inaspettato, un po' mi crogiolo a guardare in basso e un po' accolgo al mio fianco un alunno nuovo e speciale che mi fa compagnia mentre - come accade ogni volta, antica o inedita che sia - reimparo da capo il latino insegnandolo, in un prodigioso gioco di specchi.

M. non poteva tradurre il latino, soprattutto quando si innalza, facendosi bello e aspro, perché - al buio dalla nascita - non poteva vederlo, ma solo toccarlo. M., che leggeva tutti i suoi libri con il dito indice destro, mentre sulla striscia metallica allegata al suo computer salivano e scendevano solerti pallini e, valle dopo montagna, a contatto con il suo polpastrello zelante le parole arrivavano fino alla cima di lui. Non poteva capirlo perché il latino di una sola cosa ha bisogno: e in tanti potrebbero chiosare di pazienza; di memoria; di esercizio; o anche di culo, più prosaicamente. Ma io invece credo che il latino abbia più che altro necessità vitale di uno sguardo lungo.

Uno sguardo che, appena entra tra quelle quattro pareti verbali, sappia abbracciare sorridendo, e poi correre lieve in fondo alla frase; ma che poi si volti indietro per non lasciare indietro nessuno, e dopo un po' che se ne sta lì, ad accarezzare mani e ginocchia, esca sul balcone per guardare ancora una volta dall'alto tutto il palazzo, e i suoi abitanti, e solo allora socchiudere gli occhi mormorando ci siamo.

Il latino ha bisogno di quello sguardo lì, per essere amato: ubiquo, vorace, alto, materno; uno sguardo che nessun polpastrello, seppur zelante, potrà mai restituire.


Povero M., dunque: come avrà finito i tre anni di liceo classico che lo attendevano? 

E se fossimo in un libro di didattica del latino questa storia finirebbe qui, piegandosi come un nastro ubbidiente su se stessa e sulla sua nitida e nuova consapevolezza. Se fossimo. Ma non è perché ce ne stiamo seduti ormai comodamente da qualche anno sulla cima di un albero frondoso e secolare che i guai e i però siano proprio finiti. Saremmo qui, altrimenti?

Perché, forse, M. non potrà mai assaggiare la possanza del latino più limpido e tortuoso, però, a volte - quando vocabolario, grammatica e quaderno si chiudono sul banco lasciando intravedere la vita - Tinni si ritrova a desiderare piuttosto il suo polpastrello destro.

Toccare il tempo, invece di guardarlo. Sfiorare e comprendere solo quei tre o quattro puntolini rialzati che avvolgono la preparazione della cena, il trasporto di cinque mattoncini lego dalla "fabbrica" alla "discarica" tramite apposito furgoncino in miniatura, il capitolo di una storia, le facciate di un menu da cui a breve si ordinerà qualcosa di amato, il percorso da casa alla biblioteca, una domanda e la sua risposta, un ghiacciolo all'arancia, la canzone dolceamara che Spotify ti ha appena regalato. Fino lì e basta. E poi un altro segmento di puntolini. Un altro. Un altro ancora. Senza che mai le ali di quell'albatros maestoso e bastardo si librino sul futuro - né il prossimo, né il remoto - e meno che mai sul passato (avrei potuto? avrei dovuto? tornerà?).
 
Allora intendevi questo, Sofocle, quando - tra un bisogno fisiologico e l'altro (perché siamo tutti d'accordo - no? - che la cacca la facessero anche gli ultraumani come lui o come Socrate, pur in quel mondo elettrico di intelligenza suprema che doveva essere l'Atene del quinto secolo) - dipingevi Edipo strapparsi gli occhi al culmine del suo dolore? Non per punirsi? Non perché aveva sbagliato tutto? Non perché aveva visto - e pensato - troppo e male? 

Semplicemente per assomigliare un poco al polpastrello destro di M., alunno per anni dimenticato e ora, all'improvviso, innalzato al rango di piccolo paradigma della - impossibile - felicità?