Entro in aula e distribuisco fotocopie. Oppure accendo la LIM ed avvio un filmato. Chiamo un ragazzo alla lavagna e gli affido gessi colorati. Mi insinuo con qualche pretesto a sentire la lezione di un collega.
Ogni scusa è buona per lasciare la cattedra e sedermi laggiù, in mezzo a loro: quaderno, penna e una gamba ripiegata sulla sedia. Meglio se in ultima fila, per non dare le spalle a nessuno.
A volte, però, la magia è interrotta dal bussare di un bidello. Il mio debole avanti nemmeno si sente, là fuori, ma dopo pochi istanti la porta si apre comunque imperiosa.
Lo sguardo esterno corre subito alla cattedra, ed esita trovandola vuota. Gli occhi si fanno sospettosi, spaventati, incerti. Che sta succedendo?
Ecco: l’autorità, per me, è quella cattedra sgombra e lo sguardo del bidello che la avvolge senza sapersi posare altrove; involucro impenetrabile ma cavo.
Eppure, dalla mia postazione infima e speciale, prima che qualcuno arrivi a spezzare l’incanto, distinguo qualcosa che alla cattedra, di solito, è precluso: lungo la via della scuola sono tornati a fiorire i topinambur, come ogni ottobre, imperterriti e incuranti del cemento che li sovrasta. Un ragno ricomincia paziente la stessa tela che, oggi pomeriggio, il bidello di turno puntualmente arrotolerà intorno alla sua scopa. Non è un po’ come assistere al ritorno implacabile del candelabro di Un’opera d’arte nello studio medico in cui tempo prima era stato deposto? Non vi sembra che, a volte, anche gli oggetti, gli insetti, gli steli d’erba esercitino la loro parte di silenziosa ma incrollabile autorità?
Non lo so, se Cechov sarebbe d’accordo con me, ma sempre più spesso questa mi appare come l’unica forma di potere in cui volentieri mi accoccolerei.

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